Il sequestro Moro/3

Il sequestro Moro/3

di Luigi Sardi

C’era già stata nel 1969 la strage di Piazza Fontana che doveva essere il presto per la proclamazione dello stato di emergenza per uno sbocco autoritario voluto da quella frangia di estrema destra che facendo il saluto romano, urlava “Ankara, Atene, adesso Roma viene”. Poi nel 1973 c‘ era stato l’attentato alla questura di Milano con obiettivo di uccidere Mariano Rumor “colpevole” di non aver dichiarato, all’epoca di Piazza Fontana, lo stato di emergenza e l’anno dopo la strage di Piazza della Loggia a Brescia, la sanguinosa vendetta dei fascisti contro gli apparati istituzionali, ovviamente deviati, che li avevano abbandonati.
Gli italiani si erano quasi abituati all’eversione, ai sequestri di persona, alle uccisioni e se i comunicati delle Br venivano indicati come “farneticanti”, erano accolti con chiara simpatia da quegli intellettuali protagonisti della forsennata campagna di stampa condotta dal quotidiano Lotta Continua che indicando Luigi Calabresi, il commissario di Pubblica Sicurezza, come l’uomo che aveva gettato dalla finestra del quarto piano della questura di Milano l’anarchico Giuseppe Pinelli, lo avevano condannato a morte. Calabresi venne assassinato il 17 maggio del 1972 a Milano. E quando in una scuola di Trento una bidella, correndo sul corridoi gridò quella notizia, in molte aule gli studenti balzarono in piedi e battendo le mani intonarono Bandiera Rossa.
Tempi di anarchia, però in via Fani era accaduto qualche cosa di diverso: l’uccisione di 5 uomini dello Stato e il sequestro di Aldo Moro segnavano l’inizio di una lunga stagione d’angosce. La mancanza di informazioni faceva balenare l’idea che fosse in atto un colpo di stato. Molti lasciarono i posti di lavoro per rifugiarsi a casa; si svuotarono i bar, nei  negozi si fece incetta di generi alimentari a lunga conservazione. Davvero quella che si respirava in quel mattino ormai lontano nel tempo e quasi scomparso dalla memoria, era aria di guerriglia, di imminente e sanguinoso sovvertimento delle istituzioni, di probabile intervento dell’Esercito perché un assalto così sanguinoso e il rapimento del presidente della Dc sembravano l’inizio di una rivoluzione che poteva essere fronteggiata solo dalle forze armate leali alla Repubblica.

Quando alle 12,45 la radio annunciò che al Policlinico Gemelli era morto il vice brigadiere Francesco Zizzi, l’unico della scorta che era riuscito ad impugnare la pistola, il questore, il capo della procura della Repubblica, il comando dei Carabinieri decisero all’unisono di predisporre posti di blocco, secondo un piano messo a punto qualche anno prima per fronteggiare quel crescere delle rapine nelle banche che aveva punteggiato il Trentino da Strembo a via San Pietro dove era stato ucciso il maresciallo Massarelli. Ovviamente era assurdo ipotizzare un trasferimento dell’ostaggio nel Trentino, ma la presenza massiccia degli uomini dello Stato rassicurava; la raccomandazione dettata più dall’emozione che dalla necessità era categorica: armi pronte a sparare. Un ordine superfluo perché poliziotti, carabinieri e Fiamme Gialle mandati sulle strade, erano i colleghi di quei poliziotti e di quei carabinieri che erano ancora là, sull’asfalto di via Fani, ricoperti da lenzuoli bianchi, maculati di sangue. E nelle caserme la voglia di vendicarli era davvero palpabile.

E fu spaventosamente difficile, francamente se ne è parlato poco, la condizione delle vedove e degli orfani dei cinque che morirono in quel massacro. I loro, anche se incisi sulla lapide di via Fani, sono nomi ormai dimenticati. Quasi Militi Ignoti come quello sepolto nell’Altare della Patria, ai piedi della Dea Roma. Nomi fissati sul marmo destinati a durare nei secoli, ma da tempo scomparsi dalla memoria. Certo ogni anno, nell’anniversario di quel giorno funesto, quel simbolo è adornato con il Tricolore, da cento fiori, soprattutto dalla commozione. Ma ormai Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Francesco Rizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino vivono solo nel ricordo dei loro familiari e degli amici sempre meno numerosi visto il trascorrere del tempo.

C’era una convinzione generale: avevano rapito Moro perché era l’artefice di quello storico accordo che s’andava concretizzando portando il Pci nell’area del governo. Si continuò a pensare, scrivere, investigare che gli assalitori fossero guidati da una organizzazione straniera decisa a sabotare la nuova alleanza con il partito comunista e ricacciare il Pci all’opposizione. Invece, ma all’epoca non lo si poteva pensare, il progetto di rapire Moro oppure Giulio Andreotti era da tempo nell’agenda insanguinata dei brigatisti rossi. Dunque, nessuna coincidenza con il momento politico: i brigatisti decisero per Moro, forse perché Andreotti – così si disse – si spostava a bordo di un’auto blindata e sui spostamenti, a differenza di quelli di Moro, erano imprevedibili.

Molti anni dopo, Francesco Cossiga, lasciato il Quirinale e divenuto Presidente emerito, invitato a Villazzano a Villa Gelsomino da quell’uomo di cultura che fu Fabio Storelli, accompagnato a Lavis per un incontro alle Cantine La Vis e intervistato dal giornalista Gianni Faustini, confermò che “nessuno aveva mai pensato che un personaggio come Moro potesse essere l’obbiettivo di un rapimento”. Negli anni si era capito che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse, che non c’era la Cia o il Kgb. Né c’erano i tedeschi della Raf, quelli che avevano rapito Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, presidente della Confindustria della Germania Occidentale (a quell’epoca era ancora divisa in due, nda) e autorevole esponente dell’Unione Cristiano Democratica. Certo, quelli delle Br copiarono il piano del rapimento: la trappola del finto incidente stradale messa a punto a Colonia in via Vincenz Statz per bloccare l’auto di Schleyer venne ripetuta con perfetto parallelismo a Roma in via Fani per inchiodare la Fiat sulla quale viaggiava Moro e quella della scorta, uomini armati di rivoltelle e mitra ma psicologicamente disarmati. Identica la messa in scena fotografica con Schleyer ritratto nella prigione del popolo, con alle spalle la stella rossa a cinque punte e identico il clima di terrore, di rapine, di omicidi e di impotenza investigativa che in quell’epoca funestava la Germania e l’Italia. Invece i brigatisti, diversamente dalla Rote Armee Fraktion, non ebbero contatti con i palestinesi di Al Fatah che addestrarono i tedeschi alla guerriglia nei campi-poligono del Regno di Giordania dove si insegnava ad odiare gli ebrei, gli americani, il capitalismo, soprattutto ad uccidere. Davvero la sinistra democratica non centrava con l’ assurda tragedia di via Fani.

Un ricordo che non è marginale. Il 16 dicembre 2017 nella Sala Aurora di Palazzo Trentini, celebrando i 70 anni della Lega Battisti-Pasi, cerimonia voluta da Enrico Paissan e Bruno Dorigatti, il sociologo Giacinto Bazzoli che per primo raccontò in maniera documentata la storia della Sloi, la micidiale fabbrica del piombo tetraetile, tracciando la figura di Livia Battisti la fondatrice della Lega, aveva detto: “Livia era libera, laica, indipendente, orgogliosa di essere una militante di sinistra, lontana da ogni estremismo. La vidi piangere lacrime vive dal suo letto d’ospedale per la strage e il rapimento di Moro, dal quale per altro la divideva a livello ideologico, un mondo intero”. Livia morì nell’estate del 1978 e subito il neo eletto Presidente della Repubblica Sandro Pertini, volle renderle omaggio in forma strettamente privata nella camera ardente allestita in casa Battisti di corso Tre Novembre.

Ci sono due uomini, due personaggi, due testimoni di quella stagione lontana nel tempo e dalla memoria, che oggi possono raccontare cosa avvenne a Roma, nei palazzi della politica, nelle ore del delitto: Giorgio Postal e Giorgio De Giuseppe. Tutti e due democristiani, senatori, entrambi quarant’anni fa con ruoli importanti di governo. Postal nato a Trento il 17 agosto 1939 è di quella terra sicuramente amata da Moro che a Bellamonte in val di Fiemme si era costruito una casa; De Giuseppe, avvocato, docente universitario, pugliese è nato a Maglie, la città di Moro nel cuore del Salento, il 20 marzo del 1930, candidato nel 1992 alla presidenza della Repubblica. Postal, laurea in scienze politiche, è stato nella Commissione parlamentare di inchiesta sul “caso Moro”, quindi ha letto ogni pagina legata alla tragedia di via Fani; De Giuseppe insegnò a Lecce nella stessa Università di Moro di cui era amico, anzi un sincero amico, l’unico capace di tratteggiare la figura umana, politica, carismatica di quello che all’epoca veniva chiamato nel gergo del palazzo e del giornalismo “cavallo di razza”. Postal e De Giuseppe. Un uomo del nord, un uomo del sud: un denominatore comune: l’onestà, la passione per la politica, però quella delle mani sempre pulite.
Ecco il racconto di quel giorno di marzo dal ricordo di Giorgio De Giuseppe. “Il silenzio aveva gelato il corridoio dei passi perduti a Montecitorio e la sala Garibaldi a Palazzo Madama quando, poco dopo le 9, i giornalisti si precipitarono per dare la notizia” di quanto accaduto in via Fani. “Ho visto colleghi piangere, urlare, allontanarsi in silenzio o, storditi, crollare su una sedia. Nel Paese le reazioni furono contrastanti. Certamente diffusi e forti furono i sentimenti di sdegno, paura, rabbia, sgomento, come unanime l’afflizione per l’assassinio degli agenti, tra i quali molti riconobbero il volto del maresciallo Oreste Leonardi, per anni ombra di Moro nelle sue visite alla periferia del Paese. Esisteva, tuttavia, anche un altro sentimento: due giorni dopo se ne rese interprete Indro Montanelli in un articolo dal significativo titolo Loro”. E, francamente, le frasi del celebre giornalista colpirono: “Dispiace doverlo dire perché certe verità sono amare… abbiamo colto, sia pure bisbigliate, frasi come Era ora che toccasse anche a qualcuno di loro, che la diceva lunga sull’esasperazione della gente e sulla frattura tra il Paese reale e il Paese legale”. Cominciava il calvario dei 55 giorni del sequestro e “tra i colleghi si creò una situazione che, col passare dei giorni divenne imbarazzante: tutti volevano discutere, ragionare, sapere, ma c’era il timore di essere veicoli involontari di notizie che potevano nuocere alle indagini”.

In quell’epoca, gli italiani galleggiavano in una democrazia fragile. “Una democrazia debole” – come scrisse nel 2011 il senatore Giorgio Postal – “e in qualche misura, dimezzata: per decenni la divisione del mondo in blocchi contrapposti e lo stalinismo come cultura dominante delle sinistre avevano di fatto impedito l’alternanza delle forze politiche al governo e all’opposizione. Occorreva allargare la partecipazione alla direzione politica del Paese a quelle masse popolari sino a quel momento rimaste escluse. Fu proprio la stagione della solidarietà nazionale, quella che va dal 1976 al 1979, faticosamente costruita da Berlinguer e da Moro, a creare la condizione per una salda difesa del sistema democratico nel momento in cui l’attacco eversivo, sia di destra che di sinistra, raggiunse il punto più alto e critico: il rapimento di Moro e la strage degli uomini che lo scortavano per arrivare all’eccidio alla stazione ferroviaria di Bologna. In quegli anni, nonostante le differenziazioni ideologiche, la saldatura tra Dc e Pci nella comune lotta all’eversione e nella difesa dei principi democratici e costituzionali, fu determinante per la salvaguardia della democrazia parlamentare”. Insomma, erano momenti nei quali anche a Trento, era difficile individuare la giusta linea di demarcazione tra ciò che costituiva un’autentica spinta al progresso mentre la gente avvertiva l’anticipazione di un vero e proprio movimento rivoluzionario. In alcune città, Milano certamente, ma anche Trento – si respirava un clima preinsurrezionale. E basta scorrere le raccolte dei giornali dell’epoca per conoscere, ma non capire, quella stagione.

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