Dalla battaglia del Berg Isel ai falsi di Tolomei
Dalla battaglia del Berg Isel ai falsi di Tolomei
C’è nelle pagine di Girolamo Andreis che ricostruiscono le avventure di Andreas Hofer e dei partigiani tirolesi, la ricostruzione della battaglia del Berg Isel «presso Gallviek, circa un miglio distante da Innsbruck» dove si racconta «il valore della gente di quelle valli decisi a scacciare dal monte e dai luoghi fra Zierl e Kematen, i bavaresi» che il giorno 11 aprile avevano cominciato ad assalire il monte con due battaglioni di fanti, uno squadrone di cavalleria e quattro cannoni. Scrive l’Andreis: «I tirolesi appiattati, colle ben dirette loro archibugiate bersagliavano terribilmente gli avversari. Lo spedale di Innsbruck vedeva arrivare molti feriti» mentre gli uomini del generale Barbon, spalleggiati dai contadini di Hottingen «penetravano nel sobborgo di Mariahulf, s’introducevano nelle case e da queste scagliavano continui colpi di archibugio sopra quei soldati bavaresi che s’erano postati con un cannone presso il ponte dell’Enno».
Un’altra colonna di tirolesi amati di archibugio, mazze ferrate, baionette fermate sulla cima di grossi bastoni, daghe, falci e lance aveva occupato il ponte di Muhlbach dopo scontri «fatali per la Baviera, altrettanto gloriosi pel Tirolo».
Deve essere stata una battaglia terribile. Girolamo Andreis racconta il valore del colonnello barone Ditfurt «che con animo virile s’avventava contro i bravi tiratori tirolesi che scagliavano ogni sorta di insidia, dalla chiesa, dal cortile dello spedale dove s’erano postati e dalle case dove s’erano sparsamente introdotti» mentre la cavalleria bavarese «scorreva a briglia sciolta le strade della città affaccendandosi col terrore delle minaccianti loro sciabole, di sbaragliare i sollevati. Ma questi, anziché intimorirsi, divenivan sempre più ardimentosi ed infiammati dall’intrapresa pugna, ferendo infuriavano ed infuriando ferivano, ammazzavano e costringevano gli scampati dalla morte o a darsi prigionieri o a mettersi in fuga».
Ferito per la quarta volta, il colonnello Spanky viene trasferito all’ospedale di Innsbruck che, come ogni ospedale da campo durante una battaglia, era una spaventosa bolgia di dolore come pochi anni più tardi saranno i ricoveri dei feriti di San Martino, Solferino e dall’agosto del 1914 quelli sparsi nelle immediate retrovie dei campi di battaglia della Grande Guerra. Si combatte ad Hall; all’alba del giorno 13 le campane delle città e dei villaggi suono a stormo «ad avvisare il popolo che la patria era ancora in pericolo» perché «una colonna di francesi e di bavari campeggiante fra Sterzing e Gossensass si avvicinava alla città. L’allarme fu subito generale: i tirolesi accorrevano furiosamente da tutti i luoghi. Il pericolo non li spaventava, familiare diventava in quei petti l’ardore di guerra: Il sentimento di conservare illeso il rispetto verso la religione dei padri, la costituzione della Patria e il desiderio di ritornare sotto l’anelato scettro dell’Imperatore d’Austria mettevano [da parte] ogni timore ed crescevano vigore e coraggio».
Ecco Innsbruck trasformata in fortezza con barricate erette con botti, barili, carri, porte delle case sprangate con catenacci e puntelli e sui tetti sassi e ferri da lanciare addosso al nemico «qualora battagliando fosse penetrato in città». Il giorno 14 si combatte «in ogni luogo dove i tirolesi vedono i bavaresi». E’ guerra rusticana dove compare la tecnologia: il telegrafo avverte i francesi che «due poderosi eserciti austriaci marciano uno alla volta della Baviera, l’altro delle veneziane terre. Il primo, più forte di gente, di cavalli, di artiglierie è guidato dall’arciduca Carlo e l’altro dall’arcidura Giovanni fratello dell’ Imperatore Francesco».
Il cuore dell’Europa è in fiamme, i tirolesi capiscono «che da quei movimenti dipendeva il futuro destino e decidono: capo fra i capi venne confermato l’Hofer che [aveva raggiunto] fra i sollevati moltissima stima e singolare benevolenza. Ad un suo cenno correvano [tutti] obbedienti come soldati avvezzi alla disciplina militare».
Era la metà dell’aprile del 1809 cominciava il mito di Andreas Hofer destinato a crescere nel maggio del 1915 dove la figura del generale Barbon indica ai Tirolesi la via dell’Isonzo e li guida contro «il perfido nemico del sud». È l’immagine più ricorrente nella propaganda austriaca, la più celebrata nei manifesti e nelle cartoline almeno fino ai giorni di Caporetto.
Gli italiani la dovranno demolire a partire dalla primavera del 1920 e affideranno quel compito al grande nemico del Tirolo: Ettore Tolomei, l’uomo del famoso «Archivio per l’Alto Adige» fondato nel 1905 che aveva un credo. Portare il confine del Regno d’Italia al Brennero.
Nel settembre del 1914 mentre Cesare Battisti attraversava l’Italia per chiamarla alla guerra contro l’Austria, riceveva da Gaetano Salvemini, uno fra i più grandi storici italiani, una lettera nella quale si legge: «Credi che la necessità militare del Brennero sia tale da doverci far affrontare le noie e i pericoli dell’irredentismo tedesco?» e ancora: «Qual è la tua opinione sulla campagna di Tolomei per l’Alto Adige? Che uomo è il Tolomei?».
Il giornalista Claus Gatterer nel libro «Impiccate il Traditore» edito nel 2006 dalla “Praxis 3”di Bolzano scrisse che «il roveretano Tolomei quasi non conosceva il tedesco, e ciò nonostante si accinse ad italianizzare nomi di paesi e famiglie facendoli risalire alla loro origine latina… Tolomei cercava la dominazione, la conquista territoriale quindi imperialistica… fuse insieme le due ideologie con fanatica coerenza e anche con perfidia».
Come si legge a pagina 20 del libro “Alto Adige 1918-1946” di Umberto Corsini e Rudolf Lill. Proprio Tolomei «tentò di dimostrare, in contrasto alle evidenti testimonianze storiche, il carattere italiano del Sud Tirolo e di mobilitare l’opinione pubblica italiana in favore della pretesa del confine al Brennero». E ancora nel libro si legge (p.21): «Aggregato in qualità di esperto alle delegazione di pace italiana» alla conferenza di pace di St.Germain, portò «le carte topografiche con i nomi contraffatti – fra questi Vetta d’Italia al posto di Glockenkarkopf – convincendo il presidente americano Wilson, che non conosceva molto bene la geografia europea» e con l’Austria sconfitta che non poteva essere ascoltata, «della legittimità della pretesa confinaria italiana» che ottenne il Tirolo fino al Brennero, Trieste, la Venezia Giulia, l’Istria e parte della Dalmazia. In questa ottica si deve giudicare il culto di guerra posto dal fascismo al servizio della sua mistica bellica. Ad essa si devono anche gli ossari a Resia, a Colle Isarco e a San Candido, luoghi nei quali nessun soldato italiano ha mai combattuto. A dimostrazione di come il dettato della politica sconvolge, a tratti, la verità storica.