I soldati tedeschi, da alleati a nemici in una sola notte

I soldati tedeschi, da alleati a nemici in una sola notte

di Luigi Sardi

Quelli successivi all’8 settembre del 1943 erano stati giorni di angoscia. Tutti avevano capito che la guerra non era finita, anzi ne cominciava un’altra con gli alleati tedeschi divenuti, in una sola notte, nemici e invasori. Le strade di Trento erano pattugliate da soldati germanici, alcuni giovanissimi, armati fino ai denti mentre in Corso degli Alpini, sotto Torre Verde e nel borgo di San Martino colonne di militari italiani, alcuni in canottiera, altri con la giubba slacciata, tutti disarmati, silenziosi, stanchi si trascinavano verso Gardolo. A fianco, sul ciglio della strada, soldati tedeschi con il fucile a tracolla, la baionetta inastata a sorvegliare quella massa che, camminando con passo disordinato, solleva una polvere sempre più fitta.

Qualcuno portava lo zaino, la coperta da campo, quasi tutti avevano la gavetta, oggetto fondamentale nella vita militare di quegli anni, che non era mutata dal 1915 cioè dai giorni della guerra contro l’Austria. Di tanto in tanto un blindato con un tedesco sulla torretta a brandeggiare la mitragliatrice: come un gigantesco scarafaggio, sembrava spingere avanti quella moltitudine di uomini, il Regio Esercito da otto milioni di baionette spazzato via in una sola notte, abbandonato, vinto, prigioniero. Si avanzava verso il campo di aviazione di Gardolo, luogo scelto dai tedeschi per concentrare i prigionieri perché il vasto prato era circondato da una rete metallica abbastanza robusta, con i capannoni spaziosi e la grande cucina per la mensa delle maestranze – lì si costruivano a mano aerei per la Regia Aeronautica – dove si poteva allestire per i prigionieri il misero rancio quotidiano. La Wehrmacht aveva previsto tutto. Ancora prima del 25 luglio, il giorno che segnò la fine del primo fascismo, era stato preparato un piano per invadere l’Italia e da tempo i soldati tedeschi controllavano la linea ferroviaria del Brennero e della Valsugana e avevano trasferito appena a nord della città, reparti composti da reduci dal fronte russo e reclute che provenivano dalle file della Hitlerjugend. Dalla notte dell’8 settembre presidiavano la città e sorvegliavano i resti del Regio Esercito in marcia verso i campi di concentramento.

Durante il trasferimento verso il campo di Gardolo diversi militari riuscirono a fuggire buttandosi negli orti di Campo Trentino. Uno sguardo alle sentinelle per capire se guardavano altrove, un salto deciso nel profondo di un cespuglio e poi via di corsa, verso il casolare più vicino a gettare le stellette, implorare una camicia, un paio di pantaloni, una giacchetta, qualsiasi indumento per nascondere l’uniforme. Poche le testimonianze di quelle giornate: Livio Dallabrida che poi diventerà sacerdote, raccontava di soldati italiani nascosti nei campi di Vigolo Vattaro; Gioacchino Parisi che allo scalo Filzi era fuggito dal carro merci della tradotta diretta in Germania. Gli avevano sparato una raffica di mitra, lui si era infilato in un mucchio di carbone dove era stato trovato da un ferroviere che lo aveva rivestito con una tuta e ficcato nella caldaia di una locomotiva a vapore che si stava riparando perché colpita dal bombardamento del 2 settembre. Invece il tenente Antonio Radice nato a Bronte, ufficiale di picchetto la notte dell’8 settembre alla caserma “Cesare Battisti” di Corso degli Alpini, ferito e fatto prigioniero venne trasferito in Germania con migliaia di altri soldati trentini. Quando tornò per stabilirsi a Trento, scrisse il famoso libro sulla Resistenza mentre insegnava latino e Greco a Liceo Prati prima di diventare preside al Da Vinci. Invece Lino Grisenti nato a Povo nel 1923 era a Verona nella caserma Carlo Enderle. Raccontava che “a Verona c ‘erano quarantamila soldati italiani che avevano combattuto in Albania, Africa e Russia; sapevamo che i tedeschi avevano attaccato a Rovereto i militari dell’8° Bersaglieri. Quando la caserma venne circondata dai carri della Waffen SS, i soldati fuggirono e si dispersero nei campi”. Grisenti trovò un abito civile, prese un treno passeggeri e tornò a Trento. Ricordava che le esercitazioni per il lancio delle bombe a mano si facevano scagliando il più lontano possibile, ciottoli tondeggianti raccolti sul greto di un torrente. Così gli uomini che dovevano impugnare otto milioni di baionette, venivano addestrati per combattere i russi, gli inglesi, gli americani. A Villazzano l’Alpino Gino Costa incontrò un suo commilitone, Sterno Verna dell’Aquila. Si era nascosto in un vigneto, era in mutante; Costa gli procurò un vestito e lo accompagnò attraverso i boschi del Cimirlo fino a Calceranica. Verna prese un treno e dopo giorni di viaggio, e moltissimi furono i chilometri percorsi a piedi, raggiunse casa. Nel 1948 si sposò e il giorno delle nozze volle indossare quell’abito che in quel giorno del settembre 1943 lo salvò dalla prigionia.

E c’è la storia del capitano degli Altini Vittorio Tranquillini che abitava in via Bonporti. A Nikolajewka aveva sparato le ultime cannonate, forse otto colpi, centrando una postazione di mortai russi che in quel momento cruciale dello sfondamento stava seminando la morte fra gli esausti uomini delle Tridentina. Dalle pagine del periodico dell’Ana Dos Trent: “Un soldato tedesco di faceva consegnare da ufficiali e sottufficiali le pistole d’ordinanza. Anche il capitano Tranquillini consegnò la sua arma, non prima però di aver sparato verso terra, l’intero caricatore. Con quel pericoloso preambolo si arrese e affrontò il campo di concentramento in Polonia”.

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