Cesare Battisti: il ritorno in prima linea

Cesare Battisti: il ritorno in prima linea

di Luigi Sardi

Nell’estate del 1916 Cesare Battisti chiese – e la richiesta fu subito accolta – di tornare in prima linea. Una scelta che può apparire strana: il Regio Esercito schierava contro l’Austria quasi due milioni di soldati, non aveva certamente bisogno di un nuovo fuciliere considerando che Battisti era più utile nel suo impegno nelle retrovie. Infatti dall’8 gennaio del 1916 e fino al luglio di quell’anno quando tornò in trincea – e i suoi superiori gli permisero e forse favorirono quella scelta finita in tragedia – Cesare Battisti venne impiegato nel servizio informazioni della Prima Armata quasi sempre a Verona, fra le mura di Forte San Procolo dove venivano dirottati per essere interrogati, i disertori austriaci e quei prigionieri ritenuti utili per raccogliere qualche informazione di carattere militare.

Venne tolto dalla zona di Loppio dove nei primi giorni di guerra (giugno del 1915) un reparto del Regio Esercito e una compagnia di Bersaglieri che doveva distruggere il campanile della chiesa trasformato dagli austriaci in osservatorio, si erano scontrati con Standschutzen e costretti e ripiegare in uno scontro che ha lasciato i segni ancora ben visibili nonostante il recente restauro sulla facciata e le colonne della chiesa del Nome di Maria edificata nel 1818.

È una storia che comincia sulla Forcella di Montozzo il 14 luglio 1915. Da quella località a quota 2617 metri, fra mille Alpini arroccati sulle impervie creste che dalla Cima Tre Signori vanno al passo del Tonale, Battisti scrive alla moglie che abitava a Treviglio per raccontarle un evento bellico: «Ti ho raccontato di una ricognizione sopra Peio che ho fatto per studiare le posizioni e le forze nemiche. Siamo stati assenti [fuori dalle nostre linee] tre giorni. Abbiamo viaggiato un giorno intero sui ghiacciai. Abbiamo salutato a rispettosa distanza gli austriaci. Il generale [comandante] del battaglione Edolo di stanza a Ponte di Legno, informato della mia partenza, continuava a telefonare per sapere se il plotone di cui facevo parte era rientrato» ed è immaginabile il tono e il gergo militaresco delle telefonate fatte in continuazione da quell’ ufficiale che avrebbe dovuto affrontare chissà quali grane se il deputato di Trento al Parlamento di Vienna fosse stato catturato «mentre mi spingevo sopra Peio, attraverso i ghiacciai, con una pattuglia di esplorazione».

Quella sopra Peio fu una spedizione eccezionale, la più lunga compiuta da militari del Regio Esercito «nei territori dell’usurpatore» come scrisse Battisti e perché dopo 7 ore di marcia raggiunse quota 3685 metri, certamente la ricognizione a maggior altezza compiuta su tutti i fronti di quella guerra. Quando il capitano Attilio Calvi salutò la pattuglia che stava lasciando la trincea italiana, disse al tenente Adele Negri Cesi che la comandava: «La ricognizione che le affido è importante. Si ricordi che ha con sé il deputato di Trento, una preda agognata dell’Austria» e il tenente, in tempo di pace avvocato a Bergamo, rispose «lo so. Capitano, si fidi di me».

A guerra finita Cesi raccontando quell’impresa scrisse: «Dalle più alte vette da noi occupate non si riesce a scrutare quanto il nemico stia preparando verso Peio. Si decise che bisognava inviare una pattuglia, composta da uomini arditi, per il Corno dei Tre Signori e poi per il San Matteo, a spingere gli sguardi dietro le postazioni avversarie. Deve però sconfinare dal settore, informo i comandi di questa necessità e ottengo l’autorizzazione di agire. Ne parlo ad Attilio Calvi» uno dei quattro fratelli, gli altri si chiamavano Natale, Giannino e Santino, tutti caduti durante il conflitto, «che con entusiasmo si offre di preparare questa pattuglia composta da uomini scelti fra i migliori della cinquantesima compagnia. Battisti, informato della cosa, si presenta a me e mi prega di acconsentire perché faccia parte della pattuglia. Cerco di dissuaderlo facendolo riflettere sulle conseguenze a cui andrebbe incontro nell’eventualità che fosse fatto prigioniero e sulla responsabilità morale che ricadrebbe su di me. Egli mi risponde rafforzando il suo desiderio e assicurandomi che austriaci non l’avrebbero mai preso vivo. Alle sue ripetute insistenze finisco col cedere».

Scrisse Battisti: «Accettai con gioia di fare il primo viaggio, perché andavo su un territorio che mi era familiare e sapevo di poter condurre la pattuglia, senza che fosse vista, fino a 3685 metri di quota».
La pattuglia rientra dopo tre giorni e – il testo è sempre firmato da Battisti – «il comandante del campo deve essere stato certamente redarguito per la mia partenza» dal generale «perché per una prossima ricognizione ha deciso che io accompagni la pattuglia solo entro i limiti del territorio sicuramente difesi dai nostri distaccamenti. Capisco che in seguito agli ordini del generale sarò costretto a fare delle piccole passeggiatine col Comandante, a debita distanza dagli austriaci. Mi annoierò di conseguenza, essendo le mie altre mansioni presso il Comando, limitatissime».
 
È abbastanza evidente che dopo le prime settimane di guerra, i comandi che avevano fra le proprie file Battisti avevano una preoccupazione: evitare che il deputato trentino venisse preso prigioniero dai suoi compatrioti. Quando venne trasferito dalle trincee scavate nel ghiaccio alla zona di Loppio, comparve il capitano Cesare Pettorelli Lalatta Finzi del Servizio Informazioni d’Armata che lo invita, ma probabilmente gli ordina, di traferirsi subito a Verona. Si legge in «Epistolario – Tomo 2» a pagina 301: «È da osservare che il suggestivo racconto del Lalatta è, in parte, di fantasia. Appare strano che la decisione di un semplice capitano avesse l’effetto di trasferire» quasi immediatamente, Battisti dalla prima linea alla profonda retrovia. «Forse Lalatta era stato incaricato di andare a vedere che tipo fosse Battisti, prima di chiamarlo al Comando informazioni…. mentre certamente si erano adoperati [per quel trasferimento] Ettore Tolomei, Tullio Marchetti e Rosolino Poggi» che da prima della guerra lavoravano per creare una centrale di informazioni, cioè di spionaggio e controspionaggio che mancava al Regio Esercito.

Ma c’è di più. Lalatta annota nelle sue memorie scritte dopo il processo e l’esecuzione della sentenza nel Castello del Buonconsiglio, che Battisti di fronte all’ordine – negli eserciti, in tempo di guerra non ci sono inviti ma ordini da eseguire all’istante – di trasferimento al servizio informazioni, risponde: «Sì, verrei volentieri, ma ad una condizione: appena l’inverno cessa e gli Alpini riprendono le loro azioni io voglio essere rimesso in libertà». A pagina 302 del citato Epistolario si legge. «Quel dialogo fa l’effetto di un alibi da parte dell’ufficiale di carriera per una possibile accusa di una corresponsabilità nel ritorno», nel luglio del 1916, «di Cesare Battisti al fronte» dove venne catturato.

L’8 gennaio del 1916 Battisti scrisse da Ala alla moglie Ernesta: «Stamane è giunto per me l’ordine di portarmi a Verona al Comando d’Armata, sede del generale Roberto Brusati. Sto benissimo. Negli ultimi giorni sono stato impegnato in rischiose azioni in seguito alle quali il Colonnello ha proposto la mia nomina a Tenente». Cesare Battisti, vestendo le stellette di Ufficiale del Regio Esercito, diventava cittadino italiano: quindi non poteva essere né arrestato né processato quando si arrese sul Monte Corno in Vallarsa in quel mese di luglio del 1916. Al processo sostenne quella tesi. Ma aggiunse di non aver rinunciato alla cittadinanza austriaca.

(continua)

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