L'esilio amaro di Enzo Bianchi

L'esilio amaro di Enzo Bianchi

di Marcello Farina

Enzo Bianchi è una delle figure più significative del mondo cattolico. Il priore di Bose, il paese dove egli ha fondato la sua comunità alcuni decenni fa, ha accompagnato con intelligenza e libertà il cammino spirituale di tante donne e uomini.

Enzo Bianchi ha accompagnato con intelligenza e libertà il cammino spirituale di tante donne e di tanti uomini aperti alla ricerca e cercatori di umanità dentro la storia dei nostri giorni, contraddittori e difficili.

Enzo Bianchi, con il 16 febbraio, viene esiliato da Bose. Egli deve lasciare il locale dove oggi vive nei pressi di Magnago (in Piemonte) per andare a finire i suoi giorni in Toscana, nella pieve di Cellole, nei pressi di San Gimignano. Padre Amedeo Cencini, canossiano, il delegato pontificio per la comunità di Bose, glielo ha ordinato perentoriamente, senza alcuna possibilità di replica, al punto che si fa divieto ai fratelli di Bose e al fondatore di Bose di usare la parola Bose «nei nomi, nella pubblicistica, nella cartellonistica, nei siti internet, ecc.». Una Chernobyl spirituale!
L'amarezza, del tutto personale, ma certamente condivisa da molti, anche trentini, che hanno avuto e continuano ad avere un vincolo di amicizia sia con il fondatore che con il resto della comunità, travalica, comunque, i confini sentimentali, per diventare sempre di più «amarezza ecclesiale». Tanti scrivono e titolano: «Chiuso il caso Bose». Non so. Non ne sono sicuro. Perché nel momento in cui si decide di affidarsi al diritto canonico - che ha ovviamente i suoi riti, le sue leggi -, significa di fatto scegliere il principio di autorità come arbitro, non proprio super partes, per la controversia.

Un'autorità che non fa sconti alla misericordia, all'amore, al confronto, alle relazioni umane pure incasinate e frammentate, che devono però per forza, avere il coraggio di uscire dal buio delle ferite, per incontrarsi, parlarsi, dialogare» (Gianni Di Santo).
Una brutta pagina, sicuramente, per tutta la Chiesa italiana e non, e - mi permetto di dire - anche una severa ombra di chiusura, per una comunità che, invece, può pensare il suo futuro solo in termini di rispetto, di accoglienza, di libertà costruita e conservata nella dignità di ciascuno.

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