Troppi equivoci sulla scuola

Troppi equivoci sulla scuola

di Federica Ricci Garotti

Il dibattito sulla riapertura delle scuole, pur molto appassionato, non ha portato argomenti convincenti dell’una e dell’altra parte e, come spesso accade nella comunicazione in un’epoca di propaganda, si fonda sul mascheramento della verità.

Va dato merito all’Adige di avere sempre rappresentato le ragioni dei cittadini di buon senso riguardo alla pandemia in generale e a tutti i fenomeni ad essa correlati. I dati di fatto non sono confortanti: la pandemia come fenomeno mondiale non è affatto finita. I grandi numeri, come riporta Gian Antonio Stella sul Corriere di sabato 6 giugno, ci dicono che noi siamo ancora e più a rischio (volutamente non entro nel dibattito dei negazionisti o controallarmisti che tra un po’ ci verranno a dire che il virus fa bene alla salute, se preso a colazione a piccole dosi); la scuola e l’università sono luoghi ad alto rischio; la riapertura con conseguente circolazione di 8 milioni di persone è un fattore di rischio di per sé. D’altra parte, altri dati di fatto sono innegabili: non si possono penalizzare le famiglie e soprattutto le madri lavoratrici che perderebbero il lavoro o lo hanno già perso per prendersi cura dei figli a casa; imparare nella solitudine della propria stanza non è lo stesso che apprendere nella socialità, nell’interazione e nel confronto in presenza.

Premesso che, di fronte a questi dati di fatto, la soluzione ottimale non esiste, perché per esistere non dovrebbe esserci stato il virus (invito tutti coloro che tendono al pensiero desiderativo, ovvero a vedere la realtà come non è, a leggere il libretto In memoriam dedicato alle vittime della pandemia), vorrei soffermarmi sugli ultimi due punti.
La scuola, lo sappiamo, ha subito amputazioni che ne minacciano la sopravvivenza come istituzione formativa. Ne sono responsabili praticamente tutti i governi italiani degli ultimi quarant’anni. Gli arti via via amputati erano e sono indispensabili per far fronte alle esigenze formative di una società sempre più complessa ed esigente. La differenza da affrontare non è più tra gli alunni che provengono da una situazione socialmente svantaggiata e quelli più fortunati. Le variabili sono aumentate a dismisura. Disagi socioeconomici, psichici, linguistici, malattie diagnosticate e non, talenti differenti, differenze culturali e caratteriali, bullismo, intolleranze, pigrizie, noncuranza, semplice occupazione del tempo.

Ciò che un insegnante si trova a dover fronteggiare non è più, da tempo, la preparazione nella sua disciplina, ma la formazione di persone con un minimo di equilibrio in un marasma di situazioni diversificate e complesse. Aggiungiamo a questo che per molte famiglie la scuola, soprattutto quella dell’obbligo, è utile non tanto alla formazione dei pargoli, ma alla soluzione di problemi sociali, primo fra tutti il piazzamento dei figli per consentire il lavoro dei genitori che garantisce la sopravvivenza della famiglia. Se prendessimo tutti l’abitudine di chiamare le cose con il loro vero nome, dovremmo dire che il coro delle voci levatesi a favore della riapertura, subito, qui e ora, delle scuole non ha come motivazione l’apprendimento dei piccoli, ma il (legittimo) bisogno delle famiglie di trovare qualcuno che se ne occupa mentre gli adulti sono occupati. Non ci sarebbe niente di male. Poiché sembra brutto, ed egoistico, esprimere questa motivazione, molte famiglie si improvvisano esperte di pedagogia e, col beneplacito di tanti intellettuali, adducono come vera motivazione il fatto che stando a casa, in compagnia del computer, non si può imparare.

Così si sono creati due partiti: i tecnologici, che (anche questi non senza interessi personali) sostengono la bellezza e l’utilità del sistema online e i puristi, che per motivi familiari sono tornati ad apprezzare la scuola come mai avevano fatto prima.

In questo dibattito, falsato dagli interessi particolaristici, la grande assente è proprio la scuola. Che, sarebbe ora che lo si dicesse a gran voce, non è una bambinaia, non è un parcheggio, non è un ammortizzatore sociale, non è un cliente per i venditori di computer e di compagnie informatiche, non è un ospedale per casi gravi e non è un assistente sociale. È, semplicemente e scusate se è poco, una istituzione formativa. Che vuol dire che il suo compito è istruire, formare, educare bambini, bambine, ragazze e ragazzi a conoscere (tramite contenuti), a leggere la realtà, a imparare a fare, ad acquisire cultura. Per fare questo in una realtà fatta di variabili complesse ci vogliono idee, consapevolezza, investimenti ed energie.

La soluzione del plexiglas, ovvero una cabina di plastica all’interno della quale i ragazzi, in perfetta solitudine, non possono muoversi, abbracciare, interagire con i compagni e i docenti, è il perfetto specchio della scuola-baby sitter. Alunni e alunne come carcerati in plastica, purchè fuori di casa. Un certo buon senso imporrebbe di fare questo semplice ragionamento: se il problema è parcheggiare i figli, anziché spendere i soldi in materiali inquinanti come la plastica spendiamoli in buoni per baby sitter per le famiglie, meno inquinante e più umano. Oppure finanziamo le Tagesmütter, personale formato per le esigenze delle varie età, con tutte le certificazioni sanitarie necessarie.

Se invece, volesse il Signore, la comunità tornasse a ritenere la scuola un servizio professionale di qualità necessario per i giovani e le giovani, l’occasione offerta dal virus sarebbe ghiotta: sperimentiamo un sistema misto, con tutti i vantaggi dell’istruzione a distanza (che esistono indubbiamente, li ho sperimentati io stessa, rendono la mente flessibile, insegnano ad affrontare i problemi e a trovare soluzioni - il famoso problem solving che non si riesce quasi mai a proporre in classe), e quelli di un cauto, graduale e monitorato ritorno in aula, con classi piccole e un numero maggiore di insegnanti per ogni esigenza speciale. La parola chiave è integrare vari approcci, facendo tesoro delle esperienze, anche tragiche, già affrontate. Naturalmente per questo sono necessari alcuni ingredienti, squisitamente riservati ai nostri governatori: consapevolezza, competenza, buona distribuzione delle risorse senza sprechi. Docenti e famiglie ringrazierebbero.

comments powered by Disqus