Liberarsi dalla paura non sarà facile

Liberarsi dalla paura non sarà facile

di Alessandro Tamburini

Il virus ci ha messo addosso la paura, e i motivi sono tanti. Alcuni chiari e più che ragionevoli, anche utili per indurci a rispettare le norme a tutela della salute nostra e altrui, prima fra tutte la segregazione domestica a cui da tempo siamo sottoposti.

Misura che accettiamo e che la stragrande maggioranza rispetta, non senza qualche moto di rabbia verso quella minoranza di scriteriati che in principio l’ha ignorata platealmente, così da renderla poi per tutti più draconiana di quanto non avrebbe forse potuta essere.
Ma vi sono anche motivi di altra natura, dettati da pulsioni irrazionali, da un senso di oscura minaccia che travalica ogni logica e può degenerare in forme maniacali, fobie, o vere e proprie ossessioni.
 Contribuiscono ad alimentarli le troppe cose che ancora non sappiamo, o ci vengono riferite in modo vago e contraddittorio, ad esempio riguardo al numero reale di contagi che sarebbe molto superiore a quello accertato, come alle modalità con cui il virus può trasmettersi, e di conseguenza alle precauzioni a cui attenersi, mentre il non sapere quanto tutto questo durerà ci impedisce anche di razionare le forze e le risorse con cui ciascuno cerca di arrivare alla fine del tunnel. A inventare rischi e pericoli del tutto immaginari contribuiscono poi le fake news, che proliferano come non mai, quasi sempre allarmanti, diffuse da chi sembra trovare un sedativo per le proprie paure alimentando quelle altrui.

Per sopportare tutto questo abbiamo un crescente bisogno di pensare al dopo, che per il momento ha nome “fase 2” e come prossima scadenza, ancorché gravida di incognite, la data del 3 maggio, ma in un orizzonte più ampio di immaginare tempi e modi di un ritorno alla normalità, con una ricerca di fiducia, o quanto meno di speranza. Diventa quasi un dovere morale sforzarsi di essere ottimisti e incoraggianti, accreditare slogan del tipo “restiamo distanti adesso per tornare a stare insieme domani”, o “nessuno si salva da solo”, e auspicare uno slancio collettivo e solidale, da parte di individui e Istituzioni, come quello che seguì altre tragedie passate, ad esempio nel secondo dopoguerra con la ricostruzione.

Auguriamoci che sarà davvero così, ma la natura subdola del nemico e del conflitto che abbiamo oggi di fronte fa pensare che la liberazione dalla paura accumulata in questi mesi non sarà immediata, bensì richiedera un lungo e accidentato percorso. Non sarà facile sconfiggere il sentimento di insicurezza che abbiamo introiettato, rompere l’abitudine a vivere all’interno delle protettive mura domestiche, che giorno dopo giorno è diventata una pur pesante ma comunque rassicurante routine, fino a creare una forma di assuefazione.

Si può pensare di riuscire a guarirne per gradi, come succede al termine di una malattia, quando si esce per la prima volta cauti e timorosi e poi si ritrova un passo dopo l’altro la padronanza perduta. Ma la situazione che dovremo affrontare appare molto più complessa e insidiosa.
C’è il rischio che il timore del contagio abbia stipulato a nostra insaputa un patto con paure che avevamo dentro da sempre e da cui già dovevamo difenderci: quella di non stare bene con gli altri, di non sentirci apprezzati e accettati, di fallire nei nostri sforzi così da restarne delusi e infelici. Una parte occulta di noi cerca sempre qualche motivo per rinunciare, per non esporsi, per evitare di soffrire, e potrebbe trovare un comodo alibi nella condizione di latente incertezza che si creerà con il protrarsi, a quanto pare inevitabile, del periodo in cui con il coronavirus dovremo ancora convivere.

Dinamiche e problemi anche più preoccupanti potrebbero manifestarsi sul piano interpersonale. Dopo aver acquisito gli automatismi del distanziamento sociale, abituati ad accostarci agli altri solo se protetti da guanti e mascherine, a disinfettare il nostro corpo e qualunque oggetto sia entrato in contatto con l’esterno in misure e forme a volte prossime al parossismo, in quali tempi e modi sapremo riavvicinarci agli altri? Di certo lo faremo, perché ne avremo troppo bisogno per potervi rinunciare, ma è probabile che useremo criteri dettati da una logica selettiva, di esclusione piuttosto che di inclusione. In una prevedibile “ansia da contatto”, nella costante battaglia emotiva e nervosa che verosimilmente si svolgerà nel nostro intimo al riguardo, saremo indotti ad accostarci solo a persone che ci diano il massimo di garanzie possibile, cioé a quelle che conosciamo bene, che crediamo abbiano avuto un’interpretazione vicina alla nostra dell’emergenza passata e allo stesso modo si misurino coi residui pericoli.

Quelle faremo entrare nella casa che è stata a lungo il nostro esclusivo rifugio, e sempre a quelle ci sentiremo di far visita, di tendere la mano nuda, di offrire un bacio d’affetto. Tenderemo a muoverci in una logica di “comunità virtuose”, o presunte tali, ovverossia di piccoli gruppi, di clan, con l’esito, o almeno il forte rischio, che chi prima era era solo, isolato, straniero, non garantito, dopo lo sarà ancora di più. Che i peggiori atteggiamenti con cui le nostre società hanno dovuto scontrarsi fin qui, come sovranismo e individualismo, diffidenza, rifiuto nei confronti di chi è sconosciuto, altro e diverso da noi, trovino nuova linfa.

L’uscita dall’emergenza sarà difficile, forse non meno di quanto lo è stata la sua fase acuta, in cui se vogliamo che tante belle parole di cui ci siamo avvalsi in precedenza, come Solidarietà, Comunità, Unione, non vengano dimenticate o tradite, occorrerà una dimostrazione di coraggio, da parte di ciascuno e di tutti. Non sarebbe giusto chiederci di avere quello di Francesco d’Assisi che bacia il lebbroso, ma per quanto mille volte più deboli e pavidi di lui, auguriamoci di sapere trovare in noi stessi almeno un barlume di quella luce.

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