Si aprono le porte dell'inferno

Si aprono le porte dell'inferno

di Renzo Fracalossi

Il 25 luglio 1943 il fascismo implode e crolla. La dissoluzione del regime è accolta con grande giubilo dalle Comunità Israelitiche italiane e dai pochi ebrei stranieri rimasti nel regno, perché essa rappresenta una duplice liberazione: dalla persecuzione razziale antisemita e dalla dittatura che ha portato il Paese in una guerra già persa in partenza.

In realtà, per gli ebrei, si tratta di un’illusione che dura poche ore. Il governo del maresciallo Badoglio infatti non cambia alcunchè del clima antisemita e non abroga nemmeno una disposizione delle “Leggi razziali”, limitandosi solo a prendere vaghi impegni per il futuro con i rappresentanti dell’ebraismo italiano.
Poi l’armistizio e tutto precipita.

I tedeschi occupano in breve l’Italia centrale e settentrionale, avviando contemporaneamente una recrudescenza della persecuzione antiebraica ed i primi a subirne gli effetti sono proprio gli ebrei dell’Alto Adige e del Trentino. Qui i tedeschi hanno mano libera e non devono mediare con nessuno, senza alcun intralcio da parte della costituenda Repubblica Sociale Italiana. Trento, Bolzano e Belluno rientrano infatti nella “Operationszone Alpenvorland”, cioè “Zona di Operazione delle Prealpi”, che costituisce una sorta di cuscinetto fra la Germania e la Repubblica di Salò e che, di fatto, risulta annessa, sulla base di un’apposita ordinanza di Hitler del 10 settembre 1943, al III Reich. Per tutti gli ebrei ciò significa, secondo una puntuale definizione di Michele Sarfatti, transitare dalla “persecuzione dei diritti a quella delle vite” dei singoli e delle Comunità presenti sul suolo italiano soggetto all’occupazione nazista.

A fronte dell’inasprirsi della persecuzione e dell’avvio di una vera e propria “caccia all’ebreo”, non sono pochi i casi in cui la popolazione ed il basso clero aiutano e proteggono gli ebrei e ciò avviene anche fra queste valli. Italiani e tedeschi “dableiber”, cioè coloro che sono rimasti e non hanno optato per la Germania nel ‘39, aiutano gli ebrei avvertendoli degli arresti imminenti, nascondendoli alla Gestapo, fornendo falsi documenti e via dicendo. Ma non tutti sono così solidali e generosi. Larga parte della popolazione, soprattutto di lingua tedesca ed aderente agli ideali nazisti, denuncia, collabora e perseguita gli ebrei o, al massimo, rimane indifferente, egoista e cinica davanti al dramma che va consumandosi.

L’antisemitismo, dapprima solo di natura religiosa ed in seguito alimentato dalle teorie biologico-razziste, costituisce purtroppo una componente non secondaria della cultura tirolese del tempo. Da Kufstein a Borghetto si attribuisce all’ebreo, nella vulgata popolare, la rappresentazione concreta dell’immanenza demoniaca e ciò contribuisce non poco alla diffusione dell’ideologia nazista, vista come argine appunto al demonio, grazie al costante lavoro propagandistico soprattutto del “Völkischer Kampfring Südtirol” (“Fronte combattente per il Sud Tirolo”) che spinge quotidianamente sull’acceleratore dell’odio antisemita e della purezza della razza teutonica, della quale i sudtirolesi fanno parte a pieno titolo.

La Comunità Israelitica di Merano è la prima, sul territorio italiano, a subire l’orrore nazista. Già il 16 settembre, elementi meranesi della Gestapo guidati dall’Hauptscharführer SS Alfons Niederwieser procedono al fermo degli ebrei, in prevalenza anziani e malati, deportandoli a Reichenau prima e ad Auschwitz dopo. Nessuno farà ritorno. Solo la baronessa Wally Knopp Hoffmann, cittadina del Liechtenstein, viene liberata grazie alle pressioni delle autorità consolari svizzere, ma si tratta di un caso eccezionale.

Ogni arresto o sequestro di beni viene segnalato attraverso un minuzioso rapporto operativo, che viene inviato poi al Comandante SS e SD per la Zona di Operazioni delle Prealpi, lo Sturmbannführer SS Rudolf Thyrolf il quale, a sua volta, provvede all’inoltro a Berlino. Nulla sfugge alla precisione burocratica nazista ed al collaborazionismo diffuso che permette, nel volgere di poco tempo, la consegna alla macchina dello sterminio nazista di tutti gli ebrei presenti in zona.

Inizialmente le valli trentine di Non e di Fassa, anche per la loro prossimità con l’Alto Adige, sono luoghi di rifugio per gli ebrei. A Vervò, ad esempio, risiedono fin dall’estate 1943 le famiglie Rapaport e Bermann. In ottobre, a seguito di delazione, le donne vengono arrestate e tradotte ad Auschwitz dove si conclude la loro tragedia, mentre gli uomini, anche grazie ad aiuti locali, riescono a fuggire ed a salvarsi in Svizzera. A Cloz invece è mons. Guido Bortolameotti, proclamato poi da Israele “Giusto fra le Nazioni”, a salvare a proprio rischio la famiglia dell’ing. Augusto Rovighi, ebreo di Bolzano, mentre a Moena - e nonostante l’aiuto concreto di alcuni valligiani - non sfuggono all’arresto le famiglie Löwy e Riesenfeld, trasferiti il 22 febbraio 1944 ad Auschwitz e lì “diventati fumo”.

Le vicende degli ebrei in queste valli insomma non sono affatto diverse da quelle che inghiottono l’ebraismo in tutta Europa, in nome di un odio insensato, ma anche di convenienze, complicità, indifferenze e pavidità, diffuse anche qui e più di quanto la retorica del “bravo italiano” abbia trasmesso poi ai decenni successivi.

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