L'Inghilterra tra Brexit e calcio

L'Inghilterra tra Brexit e calcio

di Paolo Micheletto

Nelle settimane più drammatiche dal referendum sulla Brexit e pochi giorni dopo il trionfo dell’antieuropeista Nigel Farage, c’è un’Inghilterra che in Europa ci sta proprio bene. Tanto da dominarla. E se il popolo di sua Maestà ha scelto la Brexit (anche se domenica la maggioranza si è espressa per la Ue), il calcio inglese vota convinto per il Remain.

Ieri sera si è giocata Chelsea - Arsenal per la finale di Europa League e sabato si sfideranno Tottenham e Liverpool per vincere la Champions: quattro squadre inglesi nelle finali delle maggiori competizioni europee di calcio. Una vera lezione anti Brexit arriva quindi dal calcio. O meglio, arriva da chi il calcio lo ha inventato e lo ha esportato nel mondo. C’è un Paese che vuole uscire dall’Europa (domenica alle Europee però la maggioranza è andata ai movimenti favorevoli al Remain) ma che in Europa vuole anche vincere, guadagnando in finanze e credibilità.

Il destino sembra davvero beffardo. Difficile negare un filo rosso tra la Brexit e l’anno del dominio del calcio inglese in Europa. Ed è altrettanto difficile negare quanto il football d’oltremanica abbia beneficiato proprio dell’integrazione europea per far crescere il proprio status nel mondo.
Su bloomberg.com i giornalisti Rodney Jefferson e David Hellier hanno scritto che tre anni dopo che il Regno Unito ha votato per la Brexit, le squadre di calcio inglese offrono “una lezione sui benefici dell’immigrazione”. Per la prima volta nella storia, quattro finaliste su quattro sono infatti dello stesso paese, ma le squadre sono tutte allenate da manager stranieri e solo un gol delle partite decisive è stato realizzato da un britannico. I due autori hanno quindi ricordato che il football inglese «ha costruito il proprio successo sulla capacità di attirare talenti, e vuole continuare a farlo». Ma dopo l’attuazione della Brexit - attesa con impazienza dall’eccentrico Farage - il modello inglese non sarà più lo stesso.

L’esito delle due finali giocate da quattro squadre dello stesso paese non è casuale. Del resto, nulla è casuale nel calcio. Se Liverpool, Tottenham, Chelsea e Arsenal sono sul tetto d’Europa è perché giocano nel miglior campionato di football al mondo, anzi in un vero campionato “del mondo”. Un torneo che tra l’altro è stato vinto da una squadra, il Manchester City, che è più forte delle altre quattro. Quest’anno i citizens hanno vinto di un punto sul Liverpool al termine di un campionato nel quale la capolista è cambiata 32 volte: davvero un confronto impietoso rispetto alla serie A, di fatto assegnata con grande merito alla Juventus con molti mesi di anticipo.

Dal 2010 in Inghilterra il titolo l’hanno vinto cinque squadre, tra le quali il Leicester al suo primo successo nella storia, mentre in Italia dopo il Milan l’ha vinto otto volte di fila la Juve. Dal 2001, anno dello scudetto della Roma, ad oggi in Italia hanno vinto tre squadre (Juve, Milan e Inter), non proprio il massimo dell’alternanza e dell’imprevedibilità, che dovrebbero invece rappresentare i punti forti di ogni sport. Il Corriere della sera ha lanciato l’idea di istituire i playoff per rendere più viva la serie A: buona idea, ma serve anche molto altro.

La Premier league straccia tutti gli altri campionati sul fronte dei ricavi, che nella scorsa stagione sono stati di 5,3 miliardi di euro, mentre la serie A raggiunge a fatica i 2 miliardi. I fatturati delle sei migliori squadre inglesi superano i 3,1 miliardi, più del doppio rispetto alle prime del campionato di serie A. Questi numeri dimostrano molte cose: che non solo le più forti incassano molti soldi, ma che anche le formazioni di seconda e terza fascia hanno dividenti importanti, se è vero che l’ultima società della Premier League fattura comunque di più della Juventus. La Premier league rappresenta un sistema più equo, visto che due terzi dei proventi vengono assegnati in modo paritario, garantendo entrate sufficienti anche alle ultime squadre.

Ma non c’è solo la finanza a farci preferire l’Inghilterra. Il Regno Unito, infatti, arriva in cima all’Europa dopo un lungo percorso fatto sulla sicurezza: una politica che ha trasformato gli stadi da luoghi oscuri dominati dai temibili hooligan a salotti per famiglie, con posti a sedere e riservati, spazi commerciali, servizi pubblici a disposizione dei tifosi a pochi metri dall’uscita. In Inghilterra si va allo stadio per vedere la partita al proprio posto: la tifoseria organizzata di fatto è stata ridotta al minimo e le società hanno fatto la scelta - molto contestata in patria ma efficace - di rinunciare ai rumorosi supporter storici grazie all’aumento dei prezzi dei biglietti e alle tessere del tifoso, senza la quale non è possibile acquistare il ticket per le partite. Il risultato è evidente: assistere a un derby di Londra tra i tifosi avversari è un esercizio pacifico, mentre andare a quello di Roma rappresenta un rischio troppo alto.

La Premier league è il massimo possibile dell’integrazione: i giocatori stranieri sono in stragrande maggioranza ma le nazionali, quella maggiore e le giovanili, vanno alla grande. E i confini sono stati abbattuti una volta per sempre, come è avvenuto nelle università inglesi, negli ospedali, nelle caffetterie e alle biglietterie dei musei nazionali, dove non si paga il biglietto ma un contributo è sempre gradito e dove si parlano almeno cinque lingue diverse.
Pensare che Nigel Farage darà un calcio all’Inghilterra che piace al resto d’Europa è una sconfitta. Perché - prendendo a prestito i magnifici tifosi del Liverpool in “You’ll Never Walk Alone” - sarà meglio continuare a camminare tutti insieme.

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