Orbàn l'illiberale minaccia tutti noi

Orbàn l'illiberale minaccia tutti noi

di Gianni Bonvicini

Vi è uno spettro che si aggira nell’Unione europea: l’indebolimento della democrazia rappresentativa in alcuni stati membri. A guidare questo emergente gruppo di paesi, collocati soprattutto nell’Est Europa, è il premier ungherese Viktor Orbàn. È lui che predica apertamente la nascita della «democrazia illiberale», espressione che a prima vista sembra un ossimoro, ma che di fatto si concretizza in un regime nazionalista, autoritario e razzista (sia anti-semita che anti-islamico, tanto per non fare sconti a nessuno). Per abbellire questa involuzione democratica, Orbàn si propone come combattente europeo in nome della cristianità, neanche fossimo ai tempi delle crociate. Ma proprio questa sua vantata cristianità ha permesso fino ad oggi al suo partito Fidesz di essere membro a pieno titolo del Partito Popolare Europeo (Ppe), la maggiore coalizione di forze moderate e cristiane del Parlamento europeo.

La presenza del leader ungherese in questa famiglia politica è oggi frutto di grandissimo imbarazzo alla vigilia delle elezioni europee, che si presentano come decisive nella lotta fra partiti filo-europei, da una parte, e nazionalisti, dall’altra. Non si comprende infatti come Orbàn possa essere ancora all’interno del Ppe, dopo che il suo governo è stato raggiunto nell’ottobre 2018 dalla richiesta di avvio di una procedura sulla violazione dei principi e dei valori di democrazia e libertà (art. 7 del Trattato), su cui si dovrebbe fondare l’Unione europea.

Di fronte a questa pre-condanna, invece di recedere dalle sue leggi liberticide, che hanno messo la museruola alla stampa, alla magistratura e alle organizzazioni non governative, il leader ungherese ha in questi mesi intensificato la sua sfida contro l’Unione europea. La strada che dall’aeroporto porta in centro a Budapest è tappezzata di manifesti con le facce complici del presidente della Commissione Jean-Claude Junker (membro del Ppe) e del finanziere George Soros (ungherese ed ebreo), accomunati in un complotto per invadere l’Ungheria con immigrati clandestini. In aggiunta, Orbàn ha cacciato dal suo paese l’Università del Centro Europa, aperta e finanziata dallo stesso Soros subito dopo il crollo del muro di Berlino, primo simbolo concreto di rinascita di una cultura democratica ed europea. Ed infine, di fronte alle rimostranze di diversi partiti del Ppe stanchi di questa deriva, non ha esitato a definirli «utili idioti».

In qualsiasi altro partito politico un tale comportamento avrebbe portato all’espulsione immediata. Invece da anni il Ppe subisce e digerisce. La spiegazione sta nella componente maggioritaria tedesca del Ppe, la Cdu della Merkel e Csu della Baviera. Soprattutto la Csu, collocata molto più a destra della Cdu, ha frenato sulle intemperanze di Orbàn, perché vi sono in ballo importanti interessi economici tedeschi in Ungheria, dove Audi, BMW e Mercedes hanno grandi fabbriche. Inoltre la Csu concorda con Orbàn sul fronte della lotta all’immigrazione, diventata anche per i bavaresi una bandiera ideologica per proteggersi dalla crescita dell’estrema destra dell’AfD. Più in generale i Cristiano Democratici tedeschi e il Ppe hanno paura di perdere i potenziali tredici seggi ungheresi all’interno del futuro Parlamento europeo, dove il Ppe è previsto in calo dagli attuali 217 seggi a 181. Oggi, tuttavia, la sfida di Orbàn sta diventando troppo pesante e il 20 marzo l’assemblea dei Popolari europei, composta da ben 26 partiti, dovrà decidere sull’espulsione del Fidesz.

Il premier ungherese conosce bene i rischi che corre nell’abbandonare la maggiore forza europea, soprattutto nella battaglia che si aprirà nella nuova legislatura sul bilancio comunitario dei prossimi sette anni. L’Ungheria ha infatti fruito di un enorme finanziamento Ue. Negli ultimi sei anni ha ricevuto la bellezza di 29,6 miliardi di euro che ha utilizzato per investimenti pubblici. Il Pil ungherese odierno, in crescita del 3,6%, è dovuto essenzialmente al flusso di denaro comunitario; gli economisti calcolano che in assenza di quell’aiuto il Pil sarebbe cresciuto di un modesto 1%. Ed è chiaro che, per mantenere questo vantaggio, ad Orbàn converrebbe continuare a fare parte del gruppo più numeroso nel Parlamento europeo, altrimenti finirebbe per essere costretto ad allearsi o con la destra di Salvini e Le Pen in un gruppo minoritario o con i conservatori polacchi di Kaczynki.

Malgrado ciò, la sua forza sta ancora nell’appoggio che riceve direttamente o indirettamente dai popolari austriaci, croati, sloveni e perfino da Forza Italia. Tuttavia, le chiavi del suo futuro stanno sempre nelle mani della Cdu/Csu, che ha avuto nel passato uno sguardo più che benevole nei confronti del difficile alleato, tanto da permettergli due anni fa l’orazione funebre al funerale di Helmut Kohl. Ed in effetti la nuova presidente della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, vedrà Orbàn alla vigilia dell’assemblea in un estremo tentativo di farlo rinsavire. Comunque vadano le cose, questa brutta storia porta con sé alcune considerazioni di fondo.

La prima è che di fronte a chiare e ripetute violazioni dei valori democratici in un paese europeo, la tattica di chiudere un occhio, o tutti e due, è deleteria. Già da tempo Viktor Orbàn avrebbe dovuto essere emarginato, fino a sospendere l’Ungheria dall’Unione, come previsto dalla procedura di infrazione dell’articolo 7. Avere perso tempo per interessi di bottega o per calcoli politici uccide l’immagine democratica dell’intera Unione. La seconda considerazione è che con le prossime elezioni del Parlamento europeo non è in gioco semplicemente l’equilibrio fra forze pro-europee e partiti nazionalisti, ma la stessa democrazia: non tanto quella dell’Ue, ma quella dei suoi singoli stati membri, che proprio dal ritorno alla democrazia nel secondo dopoguerra, o dopo il crollo dell’impero sovietico, avevano trovato nel valore democratico dell’integrazione europea la loro àncora di stabilità. Compromessi e disattenzioni sui valori fondanti della democrazia e della libertà rischiano di costituire l’anticamera della loro involuzione. Il caso ungherese avrebbe dovuto essere considerato con ben maggiore severità e tempestività. Oggi esso rischia di contagiare molti altri paesi.

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