Così Facebook ci controlla tutto

Così Facebook ci controlla tutto

di Lorenzo Borga

Abbiamo una telecamera-spia in mano ogni giorno e non ce ne accorgiamo. Ogni smartphone raccoglie di giorno in giorno migliaia di informazioni sui proprietari; informazioni che accettiamo noi stessi di concedere a terzi e che mai ci sogneremmo di diffondere tra amici e conoscenti. Ma forse qualcosa sta cambiando.

Lo scandalo di Cambridge Analytics ha scoperchiato il vaso di Pandora.

Il caso ha riacquistato vigore negli ultimi giorni, quando sempre dai social si è diffusa la notizia che Facebook sta raccogliendo informazioni perfino sulle chiamate effettuate e ricevute e sugli sms inviati dal proprio telefono.

Ci riesce, sui telefoni Android, grazie all’applicazione di messaggistica Messenger che sincronizza i contatti della rubrica. Tutto legale, e sottoscritto da noi utenti, ma senza dubbio non trasparente: raramente vengono spiegate le conseguenze delle nostre decisioni.

Al momento della accettazione delle condizioni e del rilascio di nuove autorizzazioni molto raramente vengono spiegate le conseguenze delle nostre decisioni.

Così Facebook detiene ogni informazione sulle chiamate, a partire dall’orario, fino alla durata e al destinatario o mittente. Non solo: gli archivi personali, accessibili dal proprio profilo, contengono anche la lista degli amici, i loro numeri di telefono, la lista delle pagine che seguiamo, le pubblicità a cui abbiamo prestato attenzione e tutte le conversazioni scambiate sul portale.

Google, d’altronde, non è da meno: è di ieri la notizia che il motore di ricerca, presumibilmente solo su telefonini Android (sistema operativo di sua proprietà), raccoglie l’intera cronologia degli spostamenti, le foto scattate, le canzoni ascoltate, l’intera cronologia di ricerca (anche quella cancellata), tutti i contatti e le telefonate, le email inviate da Gmail, tutti gli appuntamenti del calendario, le app installate sul telefono.

Potenzialmente potrebbero accedere alla telecamera e al microfono del nostro cellulare, o del nostro computer: e siamo noi stessi ad aver dato loro l’autorizzazione. «Prego, accomodatevi».

Io posso raccontare il mio caso personale. Tra i 19 e i 20 anni (ora ne ho 22) ho avuto un telefonino con sistema Android. Al momento dell’installazione dell’app ricordo di aver dato l’ok alla sincronizzazione dei contatti.

Risultato: quando alcuni giorni fa ho chiesto l’archivio a Facebook, nella sezione dei contatti ho visto l’elenco di chi mi aveva chiamato, a che ora, giorno e anno, per quanto tempo. La sensazione non è gradevole, anche perché ci tengo alla privacy e faccio attenzione alle attività online.

Secondo le stime, trascorriamo circa un’ora al giorno sulle applicazioni offerte da Mark Zuckemberg, il giovane miliardario proprietario di Facebook, Messenger, Instagram e Whatsapp. Tempo durante il quale rilasciamo una mole considerevole di informazioni, che i giganti del web hanno imparato a interpretare e sfruttare a proprio vantaggio.

«Se un prodotto è gratis, il prodotto (in vendita) sei tu»: dall’inizio del nuovo millennio la rete ci ha illuso di un mondo piatto, in cui le distanze temporali e spaziali si annullano, e gran parte dei servizi offerti dall’interazione digitale sono gratuiti.

Un fenomeno avvenuto grazie all’oro digitale: i costi marginali sostanzialmente nulli. Una volta creata una piattaforma, acquistati i server, assunti i pochi programmatori necessari, l’aggiunta di un nuovo utente-cliente provoca per le aziende digitali un aumento dei costi sostanzialmente nullo.

Whatsapp è diventata la più diffusa piattaforma di messagistica con qualche decina di dipendenti alle spalle, per dire.

Questo solleva tre ordini di problemi: di privacy, di concorrenza e di sicurezza nazionale. La privacy è, come è ovvio, messa a serio rischio.

Azioni di contenimento e di protezioni sono possibili, a partire dall’atteggiamento quotidiano. È, per esempio, consigliabile leggere attentamente le condizioni di consenso sull’utilizzo dei propri dati, ed evitare di autorizzare l’utilizzo di vendita delle proprie informazioni a terzi per usi commerciali. Un compromesso tra comodità e sicurezza dei propri dati è possibile.

Assai più complicato è invece trovare soluzione al tema della concorrenza. Nell’era dei big data solo chi detiene i dati sta sul mercato.

Le aziende del web più sono grandi e più fatturano, grazie alla maggiore quantità, e qualità, di informazioni che possono elaborare e successivamente vendere al migliore offerente per convincerci ad acquistare un prodotto, o votare un partito.

Si tratta di un processo naturale - ma distorto - della concorrenza, e che può essere fermato solo da un intervento statale.

Con un problema non da poco: Apple, una delle grandi sorelle del digitale, è talmente ricca che la sua capitalizzazione supera il Pil del 90 per cento dei paesi al mondo.

Come regolare un’entità privata che detta legge agli stati sovrani? Infine la sicurezza nazionale: come è stato più volte dimostrato, nessuna informazione su internet è al sicuro.

Ciò significa che i nostri dati, altamente concentrati nelle mani di qualche decina di database, sono potenzialmente aggredibili da bande informatiche. Casi di furto di dati bancari, finanziari, sanitari, fino al caso aperto dell’influenza russa alle elezioni americane, sono all’ordine del giorno.

Una soluzione-provocazione esiste: iniziare a pagare. Abbandonare l’illusione, pericolosa, di un mondo digitale gratis e (ri)cominciare a pagare per servizi di comunicazione come Facebook, Whatsapp e YouTube.

Un costo di iscrizione annuale, di importo molto ridotto, che potrebbe garantire alle aziende ingenti entrate, e agli utenti la riservatezza, e la proprietà sui propri dati. Sarebbe una - nuova - rivoluzione.

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