Montagna, recuperiamo il valore del silenzio

Montagna, recuperiamo il valore del silenzio

di Annibale Salsa

Sul numero 9 del supplemento del Corriere della Sera il professor Nicola Gardini, docente di Letteratura italiana all’Università di Oxford, invita a riflettere sul tema del silenzio. Un tema centrale della civiltà occidentale, che la tradizione monastica ha elevato a forma di comunicazione piena con il «totalmente altro». Argomento, questo, che merita grande attenzione in un’epoca, come la nostra, spaventata dal «rumore del silenzio». Il silenzio fa rumore, quindi? Direi che questo «ossimoro», ossia la combinazione di significati opposti (pensiamo al «ghiaccio bollente» di una canzone di successo anni Cinquanta di Tony Dallara ma anche, per essere rigorosi, alla definizione impropria di «paesaggio naturale»), riflette una tendenza sempre più diffusa verso l’incapacità di gestire il silenzio in maniera arricchente. Le nuove generazioni, nella stragrande maggioranza, sono totalmente dipendenti dal rumore.

Sia di quello proveniente dai suoni assordanti degli apparecchi radiotelevisivi o dei clacson degli auto e motoveicoli, sia di quello vissuto in privato, mediante auricolari, tramite «iPod», sia di rumori derivanti da altre innumerevoli fonti. Se tali scenari costituiscono ormai il pedaggio da pagare nei contesti urbani, di cui rappresentano la norma, altro discorso vale per contesti di montagna dove il silenzio dovrebbe fare la differenza. Ed invece non è più così.

La colonizzazione culturale di matrice urbano-centrica si è impossessata di monti e valli, boschi e piste da sci. Nelle stazioni sciistiche invernali innumerevoli altoparlanti, disposti lungo i tracciati degli impianti di risalita, emettono suoni e musiche che con gli ambienti della montagna hanno ben poco da spartire. Non si tratta certamente di canti di montagna o di jodel evocatori di atmosfere alpestri, né tantomeno di silenzi naturali punteggiati dallo stormire delle fronde o dal canto degli uccelli. L’omologazione generalizzata e la fruizione consumistica dei suoni da intrattenimento non aiuta più a generare empatia con l’ambiente e con il paesaggio. Ci sono casi documentati in cui alcuni turisti, in montagna, si lamentano per il suono delle campane delle chiese o, addirittura, per il rumore (sic!) prodotto dai campanacci di mucche al pascolo sugli alpeggi estivi.

Tali insofferenze confermano la tendenza pseudo-rassicurante e spaesante di voler essere dappertutto e da nessuna parte (atopìa/nonluoghi). La morte dei luoghi, del senso della scoperta e della ricerca delle diversità anche in contesti vicini - esotismo di prossimità - costituisce la cartina al tornasole di una vera e propria malattia mortale della modernità sempre più difficile da curare. La dittatura dell’inautentico ha generato in molte persone un’inarrestabile dipendenza psicologica, associabile a quella condizione esistenziale che potremmo definire «sindrome del colonizzato». Goethe affermava che: «la montagna è maestra muta di discepoli silenziosi» e la terapia del silenzio non può che far riferimento alla montagna o a pochi altri ambienti naturali. Anche gli abitanti delle terre alte sono in prevalenza taciturni e poco avvezzi al rumore fino a fare di essi uno stereotipo culturale. Nelle comunità tradizionali alpine, ci ricorda la ricerca etnografica, esisteva una tipologia di rumori socialmente codificata ed accettata, quella dei cosiddetti «riti rumorosi». Si trattava di canti, suoni apotropaici, veri e propri rumori prodotti dal trascinamento di barattoli e pentolame messi in scena a fine inverno per scacciare la brutta stagione («riti di passaggio»).

Fra questi predominava il «Charivari», diffuso nelle Alpi francofone ed in particolare nella Svizzera Romanda. La sua versione trentina è riconducibile al rito del «Trato marzo», conservatosi soprattutto in Val di Cembra, ma anche in altre regioni alpine come la Val Venosta («Scheibenschlagen»), i Grigioni («Cialendamarz»), la Carnia («Las cidulas»). Questi riti avevano una particolare funzione di controllo sociale ed erano finalizzati a mettere in ridicolo coppie di risposati o ad espellere dalla comunità personaggi indesiderati. Al di fuori del cosiddetto «tempo straordinario», ritualmente regolamentato in termini di rottura ciclica del «tempo ordinario», la montagna alpina ricadeva nel silenzio e la gente bandiva ogni manifestazione gridata. Oggi, invece, la riservatezza dei modi e dei toni è stata rimossa perché ritenuta perdente. Chi grida più forte ha sempre ragione. Lo osserviamo quotidianamente nei talk show televisivi o nelle molte manifestazioni di comunicazione politica dai toni decisamente cacofonici, come quelli che ci hanno accompagnato nell’ultimo mese di propaganda elettorale. Il silenzio rappresenta, invece, l’espressione più alta della dicibilità e del linguaggio autentico, a patto che l’uomo sappia porsi in suo ascolto. Ma tale atteggiamento richiede esercizio e disposizione d’animo, pratiche obsolete ai nostri tempi.

Per questi motivi la montagna ha perduto, speriamo non definitivamente, la sua arcaica sacralità di «maestra del silenzio».

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