La posta in palio con le primarie del Pd

La posta in palio con le primarie del Pd

di Pierangelo Giovanetti

Probabilmente schifati dalle continue divisioni interne e dalle delegittimazioni reciproche nel Partito democratico, oggi saranno molti meno del solito gli elettori che andranno a votare alle primarie del Pd.
In realtà si tratta di un voto rilevante perché non riguarda soltanto l’elezione del segretario di un partito, per quanto (per ora) il maggiore nel Paese. Oggi si decide anche il candidato premier del Partito democratico, in base allo Statuto e come peraltro avviene in tutte le maggiori democrazie occidentali dove il leader del partito che vince le elezioni è a capo del governo. Il voto odierno traccia inoltre una linea politica precisa rispetto allo spartiacque epocale che segnerà il Paese nella prossima legislatura, e cioè il posizionamento dell’Italia tra scelta europeista o uscita dall’euro, tra populismo e antipopulismo. Come avverrà peraltro domenica prossima in Francia nell’alternativa fra Macron e Le Pen.

I tre candidati alla guida del Pd (e del Paese) sono, come è noto, Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano.

Di Renzi si conoscono pregi e difetti: ha perso il referendum (e quindi è stato fortemente ridimensionato), non è più la novità della politica italiana, ha appannato il suo appeal di efficace comunicatore e trascinatore.

In più resta sempre indisponentemente spavaldo e guascone, con venature a volte simil-populiste che non gli hanno portato bene il 4 dicembre. Detto questo, Matteo Renzi rimane l’unico vero leader che ha a disposizione il Partito democratico e il centrosinistra, il solo che può competere con qualche chance con gli altri due leader di schieramento del Paese: Beppe Grillo per i 5Stelle e Silvio Berlusconi per il centrodestra.

Renzi, inoltre, nonostante qualche sua sparata fuoriposto per fare il bullo con l’Europa, ha un profilo e una linea politica chiaramente europeista e di maggiore integrazione Ue. Come dimostra la sua proposta di elezione diretta del presidente della Commissione europea.
Andrea Orlando rappresenta la vecchia Ditta degli ex Ds, nemmeno tutta visto le defezioni importanti di pezzi di spicco come Veltroni, Fassino, Vacca, Martina, Orfini e altri. È stato un bravo ministro, ma con l’idea innata dell’unità delle sinistre che non ha alcuna possibilità di successo dentro il sistema proporzionale che gli italiani hanno scelto con il No al referendum di dicembre.

Michele Emiliano è l’espressione più pura e distillata del populismo giustizialista, un antistato antisistema (fa il magistrato e si candida a guidare un partito, quanto di più inconciliabile secondo la Costituzione italiana), una sorta di Masaniello de «noaltri» sulla scia dei vari De Magistris e Ingroia, facendo il verso ai grillini, scordandosi che gli elettori - se devono scegliere - preferiscono l’originale non la brutta copia.

Per quanto spuntate e consumate, le primarie restano tutt’oggi uno strumento popolare di selezione della classe dirigente e di scelta del candidato premier. Sono una forma di democrazia partecipativa, rispetto a partiti aziendali che non fanno neanche i congressi, e dove lo scettro è ereditario per trasmissione familiare. Garantiscono una consultazione reale e allargata rispetto alle pseudoprimarie della rete, dove non si sa mai chi vota, come e con quali garanzie, o ai cosiddetti «meet-up» per pochi intimi dove qualche decina di iscritti sceglie il candidato sindaco di metropoli, e se non piace al capocomico viene tranquillamente cancellato come se nulla fosse.

Il presupposto che sta alla base delle primarie è che chi vince, chi è riconosciuto dal voto popolare leader e candidato premier di quello schieramento, guidi il partito e indichi la sua proposta politica agli elettori e al Paese, sulla quale poi si esprimeranno i cittadini al momento delle elezioni politiche. Non è solo una conta dei rapporti di forza interni, per ricominciare il giorno dopo a delegittimare il proprio leader, come da tradizione consolidata della sinistra, che uccide i propri leader se non li può ricattare e condizionare (vedi Prodi e poi Veltroni, solo per fare un esempio). O per lo meno, la dirigenza del centrosinistra può tranquillamente imboccare quella strada, se crede, dovendo aver chiaro in mente che è la via maestra del suicidio.
Forse non tutti hanno presente che il quadro politico-istituzionale è profondamente cambiato dopo il referendum. Non c’è più il maggioritario, a meno che non si modifichi la legge elettorale, cosa assai improbabile.

I partiti andranno in ordine sparso prima delle elezioni, perché i governi e le alleanze si decideranno solo successivamente, dopo lunghe infinite trattative in parlamento. Con l’attuale sistema elettorale uscito dalle sentenze della Corte costituzionale, la prossima legislatura vedrà al Senato presumibilmente quattro gruppi (M5Stelle, Lega, Pd e Forza Italia) e forse sei alla Camera, aggiungendo un raggruppamento di sinistra (capitanato da Pisapia?) e uno centrista. Il governo nascerà, purtroppo, solo da larghe intese, che sia Movimento5Stelle con la Lega (sarà sufficiente?), da Pd con pezzi di sinistra e con Forza Italia, o pezzi di partiti con tanti altri spezzoni in un arlecchino composito che probabilmente non governerà, ma tirerà a campare.
Chi prenderà più voti, sarà colui che guiderà le danze nell’infinita trattativa parlamentare per dar vita ad un governo e medierà sul programma. E se alleanze non si formeranno si andrà a scioglimento delle camere, anche due o tre volte di seguito come è avvenuto in Spagna finché non si arriverà ad un governo di larghe intese. Nella stessa forte Germania da dodici anni si governa con la Grande coalizione.
Questo è il mondo con cui ci troviamo a fare i conti. L’alleanza Pd-5Stelle, che tanto piace a Emiliano, è impraticabile come ha sempre detto con chiarezza Grillo, e come ha dimostrato il famoso streaming in diretta grillini-Pierluigi Bersani, che ne ha decretato la sua fine politica. Inoltre è una ipotetica alleanza tra due visioni inconciliabili, l’Europa e l’uscita dall’Europa, il reddito statale garantito a tutti (con quali soldi?) o l’opposta riduzione delle tasse, la lotta alle scie chimiche e contro i vaccini o il riformismo strutturale del Paese.

Anche la sola alleanza delle sinistre (Pd+ D’Alema-Bersani+ Pisapia+ gli ex di Sel), gradita a Orlando, non è sufficiente per dar vita ad un governo. Per forza di cosa si arriverà ad un incontro in parlamento fra forze diverse, sulla base del discrimine Europa sì-Europa no, ancoraggio al resto dell’Occidente o sovranismo solitario, riforme sì o riforme no (cioè solo slogan populisti, impraticabili alla prova dei fatti).
Anche questo si decide nel voto di oggi. Le prove generali di quanto avverrà fra alcuni mesi alle elezioni politiche.

Per certi versi il prossimo voto politico nazionale sarà una scelta «di sistema», strutturale anche sulle alleanze politiche internazionali, del tipo di quella avvenuta nel 1948, dove gli italiani hanno optato per uno dei due sistemi di allora. Perciò le primarie odierne non sono una questione interna di partito, che conta poco per la vita dei cittadini. E questo nonostante una buona fetta della classe dirigente del Pd abbia fatto di tutto per tenere gli elettori lontano dai seggi.

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