L'inganno potente dell'informatica

La pedagogia sulla quale dobbiamo impostare il nostro agire didattico dovrà avere come obiettivo primo quello di impedire in ogni modo che i nostri studenti confondano lo strumento con il contenuto e che la loro mente sia irrimediabilmente pervasa da una sciatta caoticità spacciata per spirito critico. Altrimenti, con Platone e più coerenti di lui, sarà meglio tornare all'oralità

di Giovanni Ceschi

Se l'ingegnoso dio egizio Theuth fosse venerato ancora nella nostra epoca ipnotizzata dall'informatica, potremmo attribuirgli le esatte parole che Platone nel Fedro gli fa pronunciare a proposito della scrittura: lo sentiremmo così esaltare le sorti magnifiche e progressive del computer, che «renderà gli uomini più sapienti e più capaci di ricordare, perché con esso si è scoperto il farmaco della memoria e della sapienza». Ma potremmo immaginare che anche il re Thamus, suo interlocutore nel dialogo, risponda con le parole platoniche, parimenti trasposte dal campo della scrittura a quello dell'informatica: supremo inganno - a sentir lui - perché gli uomini, divenendo per mezzo dei computer «uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose mentre, come accade per lo più, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con loro, perché saranno diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti» (274e; 275b). 

 

Sono affermazioni da leggere con cautela, ove si consideri che nel Fedro la critica della parola scritta ci giunge pur sempre per il tramite della scrittura, ma in perfetta consonanza con l'odierno dibattito sul ruolo dell'informatica applicata alla scuola. Il delton, la tavoletta ove gli antichi scolari vergavano i propri esercizi, può essere oggi agevolmente sostituito da un tablet; il segno grafico digitale (cioè tracciato dalle dita per mezzo di uno stilo) surrogato da segni digitali di input, virtuali essi come virtuali sono la tastiera e il foglio usati per tracciarli. Ma le affinità non si fermano al livello epidermico, pur impressionante, di un'immagine come quella della kylix a figure rosse, opera dell'antico ceramografo Duride, che ritrae un giovane alle prese con una tavoletta suggestivamente affine a un notebook (vedi fotografia in pagina); la consonanza con le parole platoniche deve far riflettere un po' più in profondità sulle prospettive e i rischi di questo trapasso considerando che, se la novità si fermasse al supporto, gli effetti non dovrebbero inquietarci e anzi potrebbero renderci fieri di una rivoluzione destinata a cambiare le dinamiche di interazione con il nostro patrimonio culturale. 
 
Purtroppo, sono invece convinto che la novità dei nuovi strumenti informatici a disposizione della scuola cambierà anche - e non in meglio - la forma mentis di chi vi si accosta, con una tale pervasività da rendere impossibile disinnescarne gli effetti pericolosi semplicemente separando forma e contenuto. Rileggiamo parola per parola la critica di Thamus, applicandola all'oggi. I nostri studenti diverranno per il tramite di pc, notebook, lim, tablet, smartphone et similia sempre più uditori di molte cose senza insegnamento. La multimedialità può mettere a rischio il ruolo di chi insegna, anche solo nella forma suasiva di supporto che renda la didattica più piacevole e accattivante; ma la surroga della persona docente, nel senso etimologico di maschera viva che incarna i contenuti da trasmettere, è semplicemente impossibile (ho avuto la fortuna di incontrare insegnanti e poi colleghi di grande esperienza che, pur non avendo mai utilizzato oggetti informatici, sono apparsi ai miei occhi di studente prima, e giovane docente poi, autentiche miniere di umanità e multimedialità congiunte). 
 
I nostri studenti poi crederanno di essere conoscitori di molte cose mentre, come accade per lo più, non le sapranno: è esperienza sempre più comune dei docenti incontrare allievi che confondono il possesso di un contenuto su chiavetta usb con la sua conoscenza. Già nel 1977 Umberto Eco, a proposito delle fotocopie, osservava che esse sono uno strumento indispensabile ma possono anche trasformarsi in alibi. «Uno si porta a casa centinaia di pagine e l'azione manuale che ha esercitato sul libro fotocopiato gli dà l'impressione di possederlo. Il possesso esime dalla lettura. Una sorta di vertigine dell'accumulo, un neocapitalismo dell'informazione». Oggi, basti pensare al proliferare di citazioni nei social network, e ancor peggio negli elaborati scolastici, da autori e opere ben di rado accostate in prima persona: prassi legittimata, e persino favorita, dal delirante meccanismo del saggio breve che ancora domina la prova di italiano all'esame di stato. 
 
E sarà ben difficile discorrere con i nostri studenti, perché saranno diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti: ci dovremo limitare ad assistere rassegnati alle loro presentazioni in powerpoint, anch'esse legittimate dalla prassi della tesina d'esame, dove le immagini che scorrono sul fondo della caverna saranno quelle di youtube; e la memoria sarà resa superflua da ipertesti che daranno l'impressione di conoscere la Divina Commedia per la magia di trovare una parola nei vari canti con un clic o l'illusione di dominare il flusso narrativo dei Promessi Sposi per la facilità di seguire i movimenti dei personaggi su una mappa virtuale della Lombardia... È questa la conoscenza che vogliamo? Una conoscenza di secondo grado, depauperata come copia di copia, un'opinione altrui confusa con la propria, un articolo in wikipedia percepito come patrimonio dell'intelligenza globale quand'è solo un taglia-incolla? 
 
Credo di no. Ma allora la pedagogia sulla quale dobbiamo impostare il nostro agire didattico dovrà avere come obiettivo primo quello di impedire in ogni modo che i nostri studenti confondano lo strumento con il contenuto e che la loro mente sia irrimediabilmente pervasa da una sciatta caoticità spacciata per spirito critico. Altrimenti, con Platone e più coerenti di lui, sarà meglio tornare all'oralità.
 
Giovanni Ceschi
È docente di Greco e Latino al Liceo «Prati» di Trento
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