Rovereto, 1938: il prof cacciato perché ebreo

Rovereto, 1938: il prof cacciato perché ebreo

di Vincenzo Passerini

Il silenzio più totale avvolge la cacciata dalla scuola, il 16 ottobre 1938, del professore di scienze Ennio Gallico, di famiglia ebrea, molto stimato da studenti e colleghi. Nessun cenno nel verbale del collegio dei professori. Allibiti ma zitti gli studenti. Solerte come non mai il preside Livio Fiorio nell’applicare i «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» emanati il 5 settembre con le firme di Vittorio Emanuele III, Mussolini, Bottai, Di Revel e che ordinano di espellere dalle scuole di qualsiasi ordine e grado tutti gli alunni e gli insegnanti «di razza ebraica».

Nelle 414 pagine di grande formato della imponente, accurata e appassionante storia dell’Istituto Magistrale di Rovereto scritta da Rossano Recchia e Roberto Setti («La fabbrica dei maestri. Il primo secolo di vita dell’Istituto Magistrale di Rovereto, 1874-1969»), da poco data alle stampe, l’episodio dell’espulsione del prof. Gallico occupa poco più di una pagina, ma quella pagina, sobria e implacabile, pesa. Pesa come la più infamante nella storia della scuola, ma anche la più rimossa. Con essa mai la memoria della scuola ha fatto i conti.

Specchio di un paese che mai ha fatto i conti con la propria totale acquiescenza, rotta da poche eccezioni, alle leggi razziali che ottant’anni fa colpirono al cuore migliaia di persone innocenti e che poi aprirono la strada per tante di loro ai lager nazisti e alla morte.

Ennio Gallico si salvò dal lager, come ricorda Paolo Tessadri che ne ricostruì la vicenda nel numero di maggio del 2000 della rivista della scuola trentina «Didascalie». Cacciato dall’insegnamento tornò a Mantova, sua città d’origine, con la moglie e la figlioletta, e fece il rappresentante di medicinali e il direttore d’azienda, ma dovette poi fuggire in Svizzera dove fu accolto in un campo profughi. La figlia Chiara ricordò a Tessadri che sopravvisse mangiando bucce di patata trovate tra i rifiuti. Fu poi reintegrato nell’insegnamento a Mantova. Non amava parlare del passato: troppo doloroso. Morì nel 1980.

Dopo la guerra voluta dal nazismo e dal fascismo, e che lasciò dietro di sé cinquanta milioni di morti - la più grande strage nella storia dell’umanità -, decine di milioni di profughi e immani distruzioni, la vita riprese come se il fascismo fosse stato una fastidiosa parentesi. Fiorio continuò a fare il preside dell’Istituto Magistrale fino al 1958. Gallico fu dimenticato. Ripresero l’insegnamento i professori, anche quelli che erano stati zelanti dirigenti del fascismo roveretano, tra i quali figure di grande statura morale e culturale come Valentino Chiocchetti, Ferruccio Trentini, Umberto Tomazzoni che saranno anche grandi presidi.

Con l’«eravamo tutti fascisti» l’Italia si assolse. La cultura, la scienza, la chiesa, gli imprenditori, i giornalisti, l’esercito, tutti si assolsero. Il Trentino si assolse, costruendo anche la favola di una terra «afascista», cioè né fascista né antifascista, favola smentita anche dalla meticolosa ricostruzione di Recchia e Setti che ci restituisce l’immagine di una scuola totalmente e consapevolmente coinvolta, con pochi distinguo, nel regime fascista e nelle sue pratiche. Una tragedia collettiva. Cui non seguì la lezione che ci doveva essere.

Quei grandi professori e presidi avrebbero dovuto, dopo, cercare di capire insieme ai lor studenti come un paese civile e loro stessi si fossero piegati a un regime che negava i valori di libertà e umanità in cui erano cresciuti. Come era potuto accadere che loro stessi avessero fatto proprio il linguaggio tronfio e ridicolo di Mussolini e dei suoi, così agli antipodi di quello di Dante, Leopardi e Manzoni che essi insegnavano ogni giorno ai loro studenti. Come era potuto accadere che anche i migliori si fossero piegati, non solo i peggiori, diventando zelanti propagatori di idee barbare e incivili, come quelle razziste, come quelle di un colonialismo disumano e violento e di un militarismo tanto bellicoso quanto inconsistente.

Quei professori e presidi avrebbero dovuto, proprio perché li avevano sperimentati loro stessi, cercare di far comprendere agli studenti i meccanismi diabolici delle propagande, delle false notizie spacciate per vere, dell’ossessione del nemico, inventato, che diventa il capro espiatorio di tutte le miserie nazionali, e cosa vuol dire la mancanza di una informazione libera e di giornalisti liberi, cosa vuol dire l’assenza di una politica libera, di partiti liberi e democratici, anche al loro interno. E quali sciagure nascono da una educazione all’obbedienza a leggi ingiuste e disumane. E come sia funesta la cieca obbedienza a un capo. E come, passo dopo passo, silenzio dopo silenzio, autogiustificazione dopo autogiustificazione si uccide la propria anima.

Loro, i migliori, erano stati soggiogati da quei meccanismi, da quella cultura dell’obbedienza, dal culto del capo, e loro potevano, e dovevano, insegnare ai futuri maestri come non farsene più soggiogare e come darne gli anticorpi alle nuove generazioni. Perché l’educazione è essenzialmente educazione allo spirito critico, non al conformismo, non all’obbedienza. E le civiltà non precipitano nella barbarie finché ci sono persone che si alzano in piedi e dicono di no, anche se le altre dicono di sì. Quando quelle persone spariscono, la civiltà muore. Quando la scuola non fa crescere persone così, la scuola ha fallito. È morta. Come morì durante il fascismo. Perché produsse giovani osannanti le vili guerre del fascismo e pronti a diventarne carne da macello.

Quella lezione critica e autocritica mancò. Mancò nella scuola roveretana che forma i maestri, ma anche in tutta la scuola italiana. Eravamo plagiati e contenti, privi di dubbi, ricorda con lucidità e amarezza lo studente di allora, e allievo del professor Gallico, Guido Vettorazzo, 96 anni, personaggio assai noto, autore di una delle 25 testimonianze di studenti e professori che completano la ricostruzione storica di Recchia e Setti. Che va a concludersi proprio con l’esplosione del ’68 e con la lezione di don Milani che «l’obbedienza non è più una virtù».

Era quella obbedienza che il priore e maestro di Barbiana aveva di mira, quella che aveva distrutto la coscienza morale di un intero paese e lo aveva reso docile al fascismo. Docile e partecipe. Don Milani fece quella lezione che i nostri professori e presidi non fecero. Ma quella lezione è da fare anche oggi, e sempre, nelle nostre scuole, oggi più che mai con il fascismo e il nazismo che si riaffacciano. Una lezione da fare accostando ai libri di testo, che sembrano a volte raccontare vicende lontane, anche libri, come questa esemplare storia dell’Istituto Magistrale roveretano, che parlino di noi, dei nostri padri, dei nostri nonni, dei nostri maestri. Con verità.

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