Olio di palma: preziosa materia prima o nemico da temere?

Olio di palma: preziosa materia prima o nemico da temere?

di Open Wet Lab

Elogiato e disprezzato, difeso e accusato, di rimpiazzo e rimpiazzato: insomma, il dibattito «olio di palma sì, olio di palma no» è ora più che mai acceso e anche il ruolo giocato dall’opinione pubblica sta avendo importanti riscontri.

Ma perché tanta discussione? E perché questo scandalo è sorto così recentemente? Di questa sostanza, infatti, si discute solo da qualche anno, eppure le industrie lo utilizzano da decenni, se non da secoli. Dove, attenzione, con il termine industrie non ci si riferisce solo a quelle alimentari. Per esempio, dati alla mano, in Italia solo l’11% dell’olio importato nel 2014 è stato utilizzato da queste ultime; il restante 89%, che corrisponde a quasi 1,5 milioni di tonnellate, è stato ripartito tra i settori farmaceutico, chimico, cosmetico, mangimistico e bionergetico.

L’attenzione è stata risvegliata nel 2014 quando, il 13 dicembre, è stata applicata la direttiva europea 1169/2011 riguardante la revisione delle etichette per renderle «precise, chiare e di facile comprensione per il consumatore».

È così che l’olio di palma, prima camuffato sotto diciture come «oli vegetali» o «grasso vegetale non idrogenato», è comparso ben in vista, smuovendo non poco gli animi. Grazie alla direttiva è stato effettivamente possibile rendersi conto della sua indiscutibile onnipresenza: in primis biscotti, merendine e dolciumi ma anche fette biscottate, pane in cassetta, grissini, cereali, gelati e creme spalmabili sono alimenti della nostra quotidianità nei quali la presenza dell’olio di palma rappresenta più la regola che l’eccezione.

Persino in prodotti insospettabili come il dado da brodo e gli alimenti per neonati è tutt’altro che una rarità trovarlo.

Una diffusione così ampia è dovuta a molteplici motivi di natura diversa. L’olio di palma, una volta raffinato, è un ingrediente immancabile nei prodotti dolciari per la sua caratteristica consistenza e fragranza neutra: conferisce cremosità o croccantezza a seconda del processo con cui viene trattato e non altera il sapore finale del prodotto. Non sorprende poi che ad incidere sulla sua diffusione vi sia anche il fattore economico: le aziende riescono a distribuire sul mercato prodotti economici e competitivi dato che un litro di olio di palma all’ingrosso costa 0,57 euro al litro; nulla a che vedere con quello di oliva, il cui prezzo oscilla tra 2,70 e 5,30 euro al litro in base alla zona di produzione.

Ciò è dovuto all’imparagonabile qualità nutrizionale dell’olio di oliva e alla netta differenza che vi è nelle rese: con un ettaro di piantagione di palme è possibile estrarre 3,7 tonnellate di olio mentre, dallo stesso ettaro coltivato come uliveto intensivo se ne ricaverebbero 70-80 quintali.

La resa della palma da olio, dunque, è innegabile: 6 volte superiore alle piante di girasole e quasi 11 volte la pianta d’olivo. Inoltre le coltivazioni delle palme da olio sono distribuite in una quindicina di paesi della fascia equatoriale nei quali, grazie al loro clima caldo e umido, è possibile minimizzare i costi (e gli sprechi) dell’irrigazione.
La domanda sempre più prepotente e l’assenza di enti tutelanti l’ambiente e i diritti delle popolazioni, hanno permesso nel corso degli anni l’espansione sempre più massiccia delle piantagioni. È così che Indonesia e Malesia si sono ritrovati ad essere i principali produttori di olio di palma, arrivando a coprire circa l’85% della produzione mondiale, con notevoli ripercussioni sull’ambiente.

Per dare spazio alle piantagioni, nella sola Indonesia dal 1990 ad oggi sono stati disboscati 31 milioni di ettari. Ed è questo uno degli aspetti su cui più si accanisce la petizione «Stop all’invasione dell’olio di palma»  lanciata da «Il fatto alimentare» di cui, qui di seguito, viene riportato in maniera parziale il primo punto:

«La produzione di olio di palma è correlata alla rapina delle terre e alla deportazione di milioni di famiglie africane e asiatiche (land grabbing). È inoltre causa primaria della deforestazione di aree boschive (prima causa di emissioni di CO2 nel Sud-Est asiatico) e della devastazione degli “habitat” naturali per lasciare spazio alle monocolture come quelle della palma da olio. Queste operazioni comportano gravi violazioni dei diritti umani, l’eliminazione della sovranità alimentare e la riduzione della biodiversità».

I toni utilizzati sono considerati un po’ troppo allarmistici da chi invece l’olio di palma lo produce o lo utilizza. La EPOA9 (European Palm Oil Alliance) e la AIDEPI (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane) intervengono in sua difesa ricordando che il 18% del prodotto annuo è controllato e certificato RSPO, un marchio che garantirebbe la produzione in maniera sostenibile e responsabile. Gli enti fanno riflettere anche sul significato e sulle conseguenze che si avrebbero se l’olio di palma fosse rimpiazzato con altri oli. Questo, anziché aiutare l’ambiente, causerebbe danni probabilmente ancora più ingenti: mentre, attualmente, per produrre le milioni di tonnellate di olio richieste dal mercato «basta» una superficie che copre circa il 60% dell’Italia, nel caso in cui tutto quest’olio fosse sostituito con olio di oliva, sarebbe necessaria una superficie pari a 6 volte l’Italia.

A livello salutare la faccenda sembra complicarsi ulteriormente, come avrete modo di appurare leggendo la seconda parte dell’articolo.

Elena Klaic

 

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