La vittoria elettorale che salvò gli italiani
La vittoria elettorale del 1948 salvò la libertà degli italiani, contribuì a fermare l’Armata Rossa accampata a Salisburgo e le truppe dell’orrore delle foibe di Tito, in agguato in vista dell’Isonzo.
La vittoria elettorale del 1948 salvò la libertà degli italiani, contribuì a fermare l’Armata Rossa accampata a Salisburgo e le truppe dell’orrore delle foibe di Tito, in agguato in vista dell’Isonzo. Un voto che garantì l’ancoraggio al blocco occidentale, congelò la rivoluzione di quelli che erano stati partigiani rossi e avendo vinto le armate fasciste e naziste combattendo sotto gli stendardi del Partito comunista, dovevano ingoiare l’amaro della sconfitta elettorale che aveva visto il successo dello Scudo Crociato che a Trento e agli albori del Novecento era stato intuito da Alcide Degasperi. I comunisti avevano combattuto impugnando i mitra; erano stati sconfitti dalle schede elettorali, ma ancora clandestinamente armati, cantavano “Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa trionferà, viva il comunismo e la libertà”.
Poi, a segnare la rinascita del Paese c’era stato il Piano Ina-Casa ideato dal ministro del lavoro Amintore Fanfani uno dei “cavalli di razza” della Democrazia Cristiana rimasto ai vertici della Nazione fino al referendum sul divorzio del 13 maggio del 1974. Nelle italiche piazze si gridò: “Nanetto, te lo avevamo detto” per capire, più tardi, che Fanfani era una vetta nel sempre più grigio panorama della politica italiana. Lui era stato il motore dell’intervento dello Stato, che durò dal 1948 al 1963, per realizzare l’edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio nazionale devastato dalla guerra. Poi ci fu l’Autostrada del Sole e l’altro miracolo: quello della Rai. La Dc venne vista come il “partito mamma” che aiutò quanti a lei si rivolgevano, ma anche centro di mediazione dove gli scontri venivano assorbiti, silenziati e quasi sempre risolti. Gli italiani erano stati fascisti fino al 27 luglio del 1943, ma da più parti, dopo la guerra, mostravano di avere nostalgia del tramontato regime.
Dopo la fine del fascio, i “nostalgici” furono trainati dall’oratoria di Giorgio Almirante presenza fissa, ogni estate, a Levico Terme in una dimora - un edificio pittato di rosso sul limitare di una abetaia - dove maggiordomo e custode era Aldo Garollo responsabile di una inspiegabile quanto terribile strage. Da ricordare che Almirante fu un importante dirigente del partito nato dalle ceneri del fascismo, autore ai tempi del Duce, di articoli razzisti e antisemiti; dopo la guerra non rinnegò mai la sua fede fascista, la sua ostilità alla democrazia e la sua ammirazione per Benito Mussolini.
Chissà se scelse come maggiordomo e custode della sua dimora estiva, quel Garollo che incuteva paura anche dopo i 30 anni di Porto Azzurro. Certo, quel delitto era stato feroce; la prima notizia della strage la diede il “Popolo Trentino” (che poi diventerà L’ Adige) del 10 dicembre 1946, giornale diretto da Flaminio Piccoli, a pagina 2, sotto il titolo a tre colonne: “Spaventoso eccidio di due famiglie - un gruppo di malviventi uccide cinque persone a colpi di mitra. E’ una strage: cinque morti ammazzati apparentemente senza un motivo” e quella mattanza sarà indicata dalle cronache di nera come la “Strage di Vetriolo”.
La svolta nelle indagini fu annunciata da Roberto Moggio del giornale “Alto Adige” con il titolo: “Feroce e terrificante il delitto di Vetriolo - L’assassino: è il figlio Aldo”. L’orrore attraversò lo Stivale. Tutti i giornali ne parlarono. I settimanali popolari, tra questi “la Settimana Incom”, dedicarono al pluriomicida la copertina. Furono usati titoli del tenore: «Aldo Garollo la belva di Vetriolo». La sua fotografia in catene fu pubblicata a più riprese e quella strage, fu l’ultima raccontata da un cantastorie, un artista di strada, erede dei menestrelli medievali, che si esibiva in pubblico nelle piazze e durante le fiere, narrando storie in versi per intrattenere il pubblico e diffondere cultura orale e cronaca locale o eventi contemporanei, quasi sempre accompagnati da cartelloni illustrati. Era il "giornale vivente" e la "radio" del passato, fornendo un'informazione e un intrattenimento ad un pubblico quasi sempre analfabeta.
Poi quella notizia scomparve, inghiottita dall’annuncio del viaggio di Alcide Degasperi negli Stati Uniti per chiedere aiuti per l’Italia e addirittura ridusse quella della morte in una sciagura ferroviaria (14 dicembre 1946 a Sessa Aurunca) dell’onorevole Gigino Battisti (1901-1946), figlio di Cesare, primo sindaco di Trento e deputato alla Costituente.
La notizia della partenza di Alcide Degasperi per gli Stati Uniti, e la prima tappa era a Washington, addirittura in aeroplano. In Usa e il viaggio in aereo, erano il sogno dei ragazzi (ma anche di molti adulti) italiani. Ricordo benissimo che in poche ore si sapeva tutto su quell’aereo subito entrato nelle fantasie degli Italiani. Era un Douglas DC-4 Constellation, un quadrimotore progettato per operare su rotte a lungo raggio, prodotto dalla Douglasl Lockheed chiamato “Connie”, prodotto a partire dal 1943 per l'USAAF. E il viaggio scatenò con la ovvia sorpresa, anche una maldicenza. Si lesse, mi pare su “l’Unità”, che Maria Romana, figlia e segretaria quasi mai stipendiata dello statista, era attesa a Hollywood per fare l’attrice. E quella di un provino nella culla indiscussa del cinema, era in una Italia stretta nella miseria, una notizia davvero fantastica. Ma totalmente falsa.
Ecco alcune note su quel viaggio. Nella notte del 3 gennaio 1947, il vento soffiava fortissimo sull’Atlantico: sballottato dal maltempo, il quadrimotore della Twa fui costretto ad atterrare due volte alle Azzorre prima di riprendere il volo. A bordo con il presidente del Consiglio e la figlia Maria Romana, c’era il direttore della Banca d’Italia, Domenico Menichella, il capo dell’ufficio cambi Guido Carli, il ministro del commercio con l’estero Pietro Campilli. Mentre l’aereo traballava, questo lo ha scritto Maria Romana nella biografia dedicata al padre, Degasperi sdrammatizzò la situazione dicendo alla figlia che la sua grande preoccupazione riguardava Menichella: come sarebbe riuscito il panciuto direttore della Banca d’Italia ad indossare il paracadute, visto che nelle prove di sicurezza prima del volo non aveva avuto successo? Questa la leggenda. Il viaggio nonostante il vento gelido non dell’Atlantico ma della guerra fredda che soffiava dalla Russia, ebbe subito un successo. Che cambiò l’Italia e, rassicurandola, l’Europa, almeno quella detta all’epoca “libera”, cioè non soggetta a Stalin.
Fu un clamoroso avvenimento anche se l’Italia per gli Stati Uniti (e non solo) era ancora un Paese ex nemico e i diplomatici americani non volevano irritare quanti erano ancora apertamente contrari a Roma, soprattutto la Francia, la Gran Bretagna, l’Etiopia, l’ Albania, la Grecia, la Russia, accogliendo il leader italiano con tutti gli onori ufficiali. Ecco perché, come ha raccontato Egidio Ortona nel libro “Anni d’America” (Il Mulino, 1984), a salutare a Washington il nostro presidente del Consiglio c’erano soltanto il capo del cerimoniale Stanley Woodward e l’ambasciatore designato a Roma, Jimmy Dunn. Oltre ad uno stuolo di fotoreporter che la facevano da padroni. I cronisti erano davvero tanti perché negli Usa cresceva il numero dei rotocalchi e le fotografie, al pari delle notizie minute, erano fondamentali. Ma i giornali italiani non avevano i soldi per pagare le telefoto e il settimanale “Tempo” documentò l’arrivo di Degasperi a Washington con un grande disegno esteso su due pagine, immagine entrata nella storia del giornalismo.
Sul piano politico il viaggio cominciava in salita e l’esito degli incontri, nonostante la confluenza di interessi geopolitici, non era scontato. Particolarmente dura fu la trattativa con i manager della Import Export Bank. Campilli e Menichella puntavano all’inizio a una linea di credito di 700 milioni di dollari, mentre quello che si ottenne fu una somma di cento milioni. Ma il parziale insuccesso, dal punto di vista economico, fu fatto passare mediaticamente come un successo pieno. Nonostante i dubbi degli ambienti finanziari e industriali americani sulla immediata capacità di ripresa del sistema economico italiano, sia i politici democratici che quelli repubblicani premevano per un rafforzamento degli aiuti economici e per un’interpretazione non restrittiva delle penalizzanti clausole del trattato di pace discusse a Parigi, che prevedevano pesanti risarcimenti da parte dell’Italia. Si espressero in nostro favore sia il segretario di Stato Byrnes, sia Myron Taylor, rappresentante della Casa Bianca presso il Vaticano.
Gli americani fecero le cose in grande. Ci fu a New York, la parata d’onore a Broadway, poi il pontificale del cardinale Francis Joseph Spellmann nella cattedrale di San Patrizio e il banchetto al Waldorf Astoria. Furono tre successi al di là delle attese che trasformarono la visita in una crescente festa. Da ricordare che, visti i tempi, l’obiettivo di legittimazione internazionale del viaggio di Degasperi era legato ad una serie di accordi economici, prestiti, rimborsi, invio di navi cariche di grano e carbone, che avrebbero rafforzato la leadership di Degasperi e della Democrazia cristiana. Intanto la convivenza con i comunisti al governo diventava sempre più incerta e anche da Palmiro Togliatti, battezzato “il migliore” arrivavano segnali poco concilianti, come quello lanciato in un’intervista all’«Unità», in cui il leader comunista, che ovviamente si era intervistato, aveva fatto capire di essere disposto allo scambio con Tito tra Trieste (italiana) e Gorizia (Jugoslava). E quello sulla “soglia di Gorizia”, ben nota a quanti fecero la naja in quel confine negli anni Sessanta, era un argomento di fondamentale importanza.
Il viaggio si concluse il 15 gennaio, con un giorno di ritardo sul previsto, per via del maltempo che imperversava sull’ Atlantico. Degasperi arrivò a Roma il 17 e il socialista Pietro Nenni, ministro degli Esteri in procinto di dare le dimissioni per via della complicata situazione del partito, annotò sul suo diario di aver trovato il presidente del Consiglio alquanto cambiato dopo la visita negli Stati Uniti. In effetti, con il primo viaggio di Degasperi varò per l’Italia una nuova stagione politica che portò nel giro di qualche settimana a un rimpasto e al ridimensionamento dei partiti di sinistra nella compagine di governo e, tra maggio e giugno, con la nascita del quarto governo Degasperi con la definitiva estromissione dei rappresentanti comunisti e socialisti. La stagione del Cln era finita. Cominciava quella del Centrismo.
Un altro fattore che determinò il successo del viaggio negli Stati Uniti fu la forte influenza della comunità italoamericana, desiderosa, dopo la cocente delusione subita con Mussolini, di poter contare su un leader democratico, affidabile e assertore della democrazia. Certo, in talune zone del Nord Italia dominava ancora La Volante Rossa una organizzazione antifascista a carattere paramilitare, attiva dall'immediato secondo dopoguerra, dal maggio 1945 al febbraio 1949. Con molteplici episodi poco edificanti. C’era stato, era il febbraio del 1947, l’assalto ai profughi istriani. La domenica del 16 febbraio, la nave “Toscana” era salpata da Pola trasportando 2000 esuli che volevano raggiungere l'Italia per sfuggire alle violenze, in vero quasi nulla si sapeva dell’orrore delle foibe, compiute dai briganti di Tito.
La nave, già ospedale della Regia Marina che diventerà famosa per aver evacuato 16.800 profughi da Pola, sbarcò ad Ancona gli esuli accolti dall'Esercito e dai Carabinieri per proteggerli da connazionali, militanti di sinistra - e questa è la vergogna - che non mostrarono alcun gesto di solidarietà, ma li insultarono, minacciarono e tentarono di colpirli perché indicati come fascisti. E forse, fascisti lo erano stati davvero. O più esattamente erano persone provenienti da zone molto disagiate che il fascismo aveva deciso di trasferire nelle “terre redente” consegnate al Regno d’Italia dopo il 1918. Certo, erano stati costretti a chiedere la tessera di appartenenza al fascio, ma erano italiani costretti a fuggire dai comunisti di Tito.
La sera dopo l’arrivo ad Ancona partirono stipati nei carri di un treno merci, sistemati sulla paglia sparsa all'interno dei vagoni. Erano diretti a Bologna dove la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa avevano preparato pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Il treno giunse alla stazione di Bologna solo a mezzogiorno del giorno seguente, martedì 18 febbraio 1947. Qui, dai microfoni della stazione, da alcuni ferrovieri sindacalisti della Cgil e iscritti al Pci, fu diramato l'avviso: “Se i profughi si fermano per mangiare, lo sciopero bloccherà la stazione”.
Il convoglio entrò in stazione e subito venne preso a sassate da una turba che sventolava le bandiere rosse con la falce martello, quella innalzata dalle armate di Tito. Si legge sui quotidiani di quell’epoca che vennero lanciati pomodori e soprattutto si sputò sui connazionali, mentre altri buttarono il latte, destinato ai bambini in grave stato di disidratazione, sulle rotaie dopo aver gettato le vettovaglie nella spazzatura.
Per non avere il blocco del più importante snodo ferroviario d'Italia, il treno venne fatto ripartire per Parma dove Poa (Pontificia opera di assistenza) e Croce Rossa poterono distribuire il cibo, trasportato da Bologna con automezzi dell'esercito e dell'Arma. La destinazione finale del treno fu La Spezia dove i profughi furono temporaneamente sistemati in una caserma.
Questa, in sintesi, la storia di quell’ epoca che vide l’Italia cominciare a rinascere, ripudiare finalmente la guerra, cominciare un’ epoca di crescente benessere che avrà il suo culmine agli inizi degli anni Sessanta.