Blog / Lanterna magica

I treni della speranza per i bimbi poveri e quelli della disperazione per i minatori diretti all'estero

Nel secondo dopoguerra si intrecciarono due vicende di grande rilievo: la prima ideata dalle donne del Partito comunista italiano per aiutare l'infanzia, l’altra firmata da Alcide Degasperi e proposta, forse imposta dal Belgio

Ecco due vicende ormai dimenticate, cresciute nei primi mesi della Repubblica e ricordate, una come “i treni della felicità” e l’altra come “i treni del carbone”. La prima ideata dalle donne del Pci (Partito comunista italiano), l’altra firmata da Alcide Degasperi e proposta, forse imposta dal Belgio.

Era il maggio del 1945, l’Italia usciva schiantata dall’ombra cupa di una guerra perduta, voluta nel giugno del 1940 da Benito Mussolini, dichiarata con il grido “vincere e vinceremo”, alla Francia, all’Inghilterra, poi alla Grecia, all’ Unione Sovietica e persino agli Stati Uniti. 

Il Duce voleva a tutti i costi, essere alleato e amico di Hitler perché temeva che il Führer, portato al Brennero il confine della Grande Germania, occupasse l’Alto Adige ( si finiva in galera chiamandolo Tirolo ) il porto di Trieste, le fabbriche di Gardone Val Trompia che producevano le migliori armi da fianco, il Lago di Garda perché sulle sponde del Benaco si volevano installare - e questo si legge nei famosi “Diari” di Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri e marito di Edda, la figlia prediletta di Mussolini - ospedali, sanatori e centri di recupero dei soldati germanici reduci dai vari fronti, poi una parte fertile della Pianura Padana e le miniere di mercurio di Abbadia San Salvatore alle pendici del Monte Amiata in Toscana.

C’era una miseria che oggi non possiamo immaginare; all'indomani della fine della strage, il nostro era un paese distrutto che doveva fare i conti con la ricostruzione materiale e umana del proprio tessuto sociale.  Al Sud città e villaggi devastati dagli scontri delle armate anglo americane e tedesche, erano in una condizione di distruzione, di totale povertà e le famiglie in situazioni economiche difficili già prima del conflitto quello finito nel 1918, si ritrovano ancora più povere. 

Dal luglio del 1943 con lo sbarco e l’avanzata degli Alleati, i centri abitati del Meridione subirono enormi distruzioni causate dai bombardamenti anglo-americani e dai furiosi combattimenti terrestri. Al Nord le grandi città come Milano, Torino, Genova, Bologna erano devastate dai bombardamenti e percorse dalla guerra civile che la pace non riusciva a domare. Non c’era da mangiare, vestire, riscaldarsi; dominava la borsa nera e si sopravviveva nella paura di una guerra civile, nell’attesa che tornassero i prigionieri di guerra, ma nessuno arrivava dalla Russia. Le fabbriche erano devastate, come i porti, le massicciate ferroviarie, le stazioni, i ponti. 

Le scuole erano chiuse, gli ospedali erano in situazioni critiche; le armate di Tito, quel Josip Broz Tito con i nonni che provenivano dalla Vallarsa, erano accampate in vista dell’Isonzo; Trieste era una città lacerata, Gorizia, Pola e Fiume erano diventate bivacco degli iugoslavi, nulla si sapeva delle foibe ma gli italiani di quelle zone, uomini e donne che sparivano, non tornavano più nelle loro case.

Gli americani se ne erano andati con le loro scatole di carne Spam, le stecche di sigarette Lucky Strike, la cioccolata, lo zucchero in dadi bianchi, il chewing gum, le bottigliette di Coca Cola, il ddt spruzzato a pioggia, tutta roba distribuita a mani larghe, anzi larghissime, al popolo degli affamati.

In quei mesi Alcide Degasperi risorto dalla biblioteca del Vaticano dove aveva trovato rifugio e salvezza, riuscì a trasformare l’Italia da ex-nemico a collaboratore nel segno della pace. Un percorso arduo, pieno di ostacoli e quando per la prima volta da Presidente del Consiglio si recò a Londra, gli fecero trovare le fotografie dei crimini di guerra commessi dal Regio Esercito, in Abissinia, Libia, Grecia, Albania, Jugoslavia.

Oggi si ricorda vagamente l’adesione italiana alla Nato arrivata dopo tre giorni e tre notti di una estenuante seduta fiume a Montecitorio e la battaglia scatenata dal Partito comunista, il Pci di antica memoria di Palmiro Togliatti che veniva da Mosca. 

Si narra che qualcuno dei comunisti si mise e sbraitare contro Degasperi puntando il dito contro di lui e dandogli di continuo del tu. 

Quel trentino prestato all’Italia alla fine del 1918, non si scompose, come suo solito. Si alzò, e con voce ferma gli disse: "Giovanotto, mi dia del lei. Non fiatò più una mosca”. Come ricordava la figlia Maria Romana quando in Sella Valsugana, ogni agosto incontrava i giornalisti tenendo viva l’immagine di suo padre. 

Ancora dai ricordi della figlia dello statista del Tesino: “I comunisti lo accusavano di voler svendere il Paese agli americani. Quelli di allora sì che erano veri comunisti, gente che davvero voleva prendere il potere. Per fortuna Palmiro Togliatti ebbe la lucidità di frenare certe spinte rivoluzionarie. Il Pci aveva capito i limiti dell’Unione Sovietica e sapeva di dover evitare la lotta armata fra comunisti e cattolici. Nel 1949 l’Italia era già militarmente ed economicamente legata agli Stati Uniti d’America”.

Degasperi una sera fece telefonare al Sindaco di New York dicendogli che gli italiani erano alla fame. E gli americani dirottarono sessanta navi Liberty, i muli degli oceani ( gli Stati Uniti potevano varare 5 di quelle navi ogni giorno ) in grado di imbarcare 300 carri ferroviari, oppure 2840 jeep, o 230 milioni di munizioni. 

La flotta carica di grano, in navigazione verso il porto di Southampton che si apre sulla costa meridionale dell'Inghilterra, venne dirottata su Genova, Napoli e Palermo. Quel grano che doveva sfamare gli inglesi che pur vincitori nella guerra erano anche loro nella morsa della fame, alleviò le sofferenze degli italiani e fu il primo ponte fra l’Italia e gli Usa.

In quell’epoca di stenti e di angosce - l’Italia era stata liberata da pochi mesi e dovunque c’erano distruzione e macerie - e per far fronte alla situazione di emergenza, in quasi tutte le grandi città nacquero comitati per risolvere problemi come la distribuzione dei viveri, lo sgombero delle macerie e la tutela dell'infanzia. La situazione dei bambini nel dopoguerra era veramente drammatica, vista la miseria, la totale scarsità di beni di prima necessità e le enormi distruzioni.

Nel novembre del 1945 la Croce Rossa, aveva avviato l'organizzazione dell'ospitalità in famiglie svizzere di bambini lombardi, soprattutto di Milano.

Si era mosso anche il Partito Comunista italiano grazie ad una idea dell'Unione donne italiane (UDI), con un’iniziativa che fra il 1945 e il 1947, gli anni più duri della rinascita, fu davvero straordinaria. Almeno 70.000 bambini prima di Milano, Torino, Brescia, Como e poi del Sud d’Italia vennero ospitati da famiglie che avevano deciso di adottarli temporaneamente. 

Così dalla stazione di Milano, il 16 dicembre, partì il primo treno speciale che portò 1.800 bambini a Reggio Emilia, dove le famiglie di credo comunista li ospitarono fino alla primavera. Quei bambini non avevano idea di cosa li aspettasse e poiché la proposta era del Pci, si raccontò che la Chiesa andava dicendo che sarebbero finiti in mano ai comunisti che ne avrebbero fatto sapone. Invece quei bimbi spaventati, affamati spesso orfani, ricevettero cibo, affetto, cure mediche e una casa serena. 

Dopo circa due anni tornarono alle loro famiglie, spesso mantenendo i contatti con quelle che li avevano ospitati; in alcuni casi i bambini rimasero con le nuove famiglie.

Si racconta come Teresa Noce, dirigente comunista, già combattente in Spagna con le Brigate internazionali (nome di battaglia “Estella”), internata dai nazisti nel campo di Ravensbrück, avviò quel progetto: “Sarebbe toccato soprattutto alle compagne lavorare. Ma avremmo fatto in modo di mettere all’opera anche gli uomini. Tutte le compagne di Milano si misero al lavoro. Nel mio ufficio, che allora era chiamato della “stufa rossa” perché, quando ci davano un po’ di legna, era riscaldato da una stufa di terracotta rossa, era un via vai continuo di donne, uomini, bambini. Arrivavano richieste da ogni parte. I bambini affamati erano tanti. Cominciava il tempo autunnale e non c’era carbone. I casi pietosi erano molti, moltissimi. Bambini che dormivano in casse di segatura per avere meno freddo, senza lenzuola e senza coperte. (…) Bambini lerci, pieni di croste e pidocchi, tormentati dalla scabbia”.

Il movimento “Per la salvezza dei bambini d’Italia”, come verrà poi chiamato nei numerosi comitati organizzatori sparsi per l’Italia, nasce a Milano, dalla intuizione di Teresa Noce, organizzato dalla Unione donne italiane, erede dei Gruppi di difesa della donna, cresciuti nei giorni della lotta partigiana che sembrava sul punto di riaccendersi più sanguinosa di prima.

Si era letto su “l’Unità” del trapassato remoto, che le città erano piene di bambini che soffrivano fame e freddo. A una prima richiesta di aiuto, Teresa Noce invitò la compagna Dina Ermini a sondare la disponibilità dei compagni di Reggio Emilia a ospitare in affido un certo numero di bambini nel periodo invernale. Il radicamento e l’organizzazione del Pci nell’Emilia Romagna faceva presagire una buona risposta alla loro richiesta di aiuto. Che andò oltre ogni rosea speranza: Reggio Emilia rispose offrendo accoglienza per duemila bambini, seguita a ruota da Parma, Piacenza, Modena, Bologna e Ravenna. In parallelo avverrà un altro trasferimento: quello dei bambini di Torino verso Mantova.

Al quinto congresso del Pci che si tenne a Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946, con le richieste di aiuto all’infanzia, si decise di estendere l’iniziativa e radicarla a favore del Mezzogiorno. Nei primi mesi del 1946 si avviò quindi il trasferimento a scaglioni di migliaia di bambini da Cassino e da Frosinone devastate dalla guerra e, quasi in contemporanea, altre migliaia da Roma, dalla sua periferia e dalle borgate più popolari. 

Nel 1947 si replicò con il trasferimento, forse il più imponente, da Napoli verso le regioni del Centro Nord, di circa 10.000 bambini, gli sciuscià (i lustrascarpe) sottratti alla strada e allo sfruttamento. Treni speciali continuarono a partire negli anni successivi, dal 1948 fino al 1952, dalla Calabria martoriata dall’alluvione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Puglia e dal Polesine.

Il Pci e l’Udi, animatori principali dei comitati organizzatori, furono affiancati dai Comuni, dai Prefetti, dal Cln, dalla Cgil, dall’Anpi, dalla Croce rossa, dal Centro italiano femminile (Cif) di ispirazione cristiana, dalle cooperative e da tanti privati cittadini.

Aiuti arrivarono anche dalle Ferrovie, dal ministero dell’Assistenza postbellica, dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration, la famosa ma dimenticata Unrra. Protagoniste principali dell’organizzazione dei viaggi, furono le militanti dell’Udi, che si occuparono di curare e vaccinare i bambini, raccogliere fondi e donazioni da privati, enti, commercianti, consigli di fabbrica, distribuirono indumenti e biancheria, calze e scarpe, andando casa per casa per conquistare la fiducia delle famiglie, verificare le condizioni di salute di ognuno, prepararne le schede personali e i cartellini di riconoscimento, abbinare ogni bambino alla famiglia di accoglienza, accompagnarli nel viaggio fornendo vitto e vestiario, mantenere i contatti tra le famiglie. 

Le donne dell’Udi furono sostenute dai militanti di tutte le sezioni del Pci, da moltissimi medici volontari, ma trovarono nelle Crocerossine, delegate all’assistenza nei vagoni, le più inaspettate aiutanti nei lunghi e faticosi viaggi in treno.

Decine di migliaia di bambini furono ospitati e accuditi dalle famiglie contadine e operaie della Toscana, delle Marche, dell’Emilia-Romagna, del Veneto e della Lombardia, presso le quali vennero rivestiti, curati, mandati a scuola. Ritornava spesso il detto: “Dove si mangia in sette si mangia anche in otto!”. Nelle stazioni, a salutarli alla partenza e all’arrivo, c’erano le bande musicali di ferrovieri e tranvieri, i sindaci con intere giunte comunali, i militanti e le militanti dei Comitati di accoglienza che provvedevano alla collocazione dei bambini presso le famiglie ospitanti.

Quel periodo è passato alla storia, ovviamente dimenticata, come il tempo dei treni della felicità, vicenda contemporanea a quella meno felice, dei treni del carbone. Il 23 giugno 1946 era stato firmato a Roma il protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio. In cambio il governo belga cedeva all’Italia 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 minatori immigrati. In Italia si guardava all’inverno. Quello del 1945 era stato durissimo. Certo, era stato il primo di pace, ma il freddo, la fame, la mancanza di alloggi, molte famiglie distrutte, avevano stremato le popolazioni del nord. 

Così l’idea dello scambio uomini-carbone era parsa indispensabile. I belgi non erano più disposti a scendere in quelle miniere per fare lavori molto pericolosi. E cercavano persone che potessero lavorarvi. In Italia mancavano denari e carbone. Così per la Bataille du charbon, lanciata dal primo ministro belga Achille van Acker, il 20 giugno 19046 si firmò un accordo con l'Italia, era Presidente del Consiglio Degasperi che prevedeva l'invio di uomini in cambio di carbone. 

Scrisse Ferdinando Milone sul “Bollettino della Società geografica italiana” che l‘economia postbellica consentiva ai belgi di “abbandonare una fatica quanto mai ingrata ed abbrutente, nociva, mal retribuita e pericolosa”

Nelle miniere, a prendere il loro posto, arrivarono soprattutto gli italiani, completamente ignari di quel che li attendeva.  (…). I villaggi, le strade, i baraccamenti si estendevano uno dopo l’altro e uguali com’ erano, era difficile distinguerli l’uno dall’altro. D’inverno le strade gelavano, avvolte da fitte nebbie e i minatori passano dai 45 gradi sottoterra ai 35 sotto zero alla superficie. La strada sulla quale camminavano era della miniera come la baracca dove i minatori vivevano. 

Tutto era dei padroni della miniera: lo spaccio, il piccolo cinema, la ferrovia, il pullman, il terreno da costruzione, i mobili, i letti, il bar, la birra, il pane. Partirono dall’Italia in 63 800 e i contratti vennero cambiati dopo la sciagura di Marcinelle. Avvenne per un errore umano, l’8 agosto 1956. Un incendio, scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile di Bois du Cazier, uccise 262 uomini di dodici diverse nazionalità: 136 erano italiani

“Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera - scriveva Rubens Tedeschi sulle colonne de “l’Unità” - Un fumo denso, nero, acre oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Cadeva una pioggia di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere. Una folla composta in massima parte di donne e bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. 

Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma soprattutto in italiano, perché italiani sono in massima parte, i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli”. 

Una sola parola: inferno. Che cominciava a Como, un po’ prima del confine con la Svizzera. In un verbale della polizia di frontiera è scritto che a Como gli sportelli delle carrozze dovevano venire chiusi, sigillate le porte delle latrine che all’epoca erano a caduta libera e si dovevano usare buglioli, cioè tinozze di zinco per evitare che la cacca degli italiani diretti in Belgio lordasse le massicciate delle ferrovie svizzere. L’acqua per bere era conservata in bidoni, i treni viaggiavano solo di notte e non si fermavano in nessuna stazione. Questi erano i treni del carbone.

[nelle foto del repertorio Ansa, bambini all'ospizio della Sacra famiglia a Cesano Boscone, vicino a Milano, nell'estate del 1946, immortalati dal fotografo Enrico Zuppi, che realizzò un reportage di 150 foto, in bianco e nero e 35 millimetri, oggi custodite all'istituto Sturzo di Roma]

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