Il grido delle donne in guerra, oggi come nel 1914

di Luigi Sardi

Abbiamo la guerra sulla porta di casa. Negli stessi luoghi dell’ antica Galizia che nell’autunno del 1914 videro le enormi sofferenze dei trentini nella divisa di soldati dell’ Impero austriaco. Era il marzo del 2022 quando dai telegiornali della sera abbiamo capito che si stava riportando indietro la storia mentre ci correvano sotto gli occhi immagini tremende, identiche a quelle – per restare nel Trentino – del 2 settembre del 1943, quando per la prima volta la guerra si abbatté dal cielo su Trento distruggendo i rioni della Portèla e di San Martino. E ancora una volta dalle città devastate e dagli affollati rifugi si leva un grido d’angoscia, uguale per le donne ucraine e per quelle russe e identico a quello delle donne dell’ Europa del 1914 travolte da una guerra folle quanto inutile, una tragedia come la peste nera che rischiò di cancellare l’Uomo dalla Terra.

Il “Corriere della Sera” di giovedì 17 marzo intitolava “L’attacco all’ Ucraina - Orrore nel teatro di Mariupol” tornando a mostrare l’angoscia della sopravvivenza nei rifugi dove si è rintanato un popolo di donne, bambini, anziani, malati e feriti. In Ucraina si resiste all’aggressione russa perché generazione dopo generazione, uomini e donne erano stati addestrati dall’ Unione Sovietica - erano gli anni della Guerra Fredda - alla guerriglia partigiana. Questa volta, rispetto al passato, con un rischio in più. Quel nuovo zar spaventato dalla Nato, possiede l’atomica che aveva già minacciato di usarla in Siria e l’angoscia più grande è che il timore di perdere la faccia gli faccia perdere la testa.

Ci sono molte e tutte drammatiche analogie fra i giorni che stiamo vivendo e quelli che precedettero la Grande Guerra che portano milioni di morti, lo stalinismo, la depressione economica, la tragedia della spagnola il morbo che uccise più delle trincee, il fascismo, il nazismo e il secondo conflitto dall’Europa al Giappone finito nel lampo della bomba atomica che ancora incombe. Anche un secolo fa si era capito quale abisso si stava spalancando quando, era il 29 luglio del 1914, Winston Churchill scriveva - forse alla moglie- “ogni cosa tende alla catastrofe [come se] un’ ondata di follia avesse colpito la mente del mondo cristiano”. Anche il ministro degli esteri inglese Edward Grey che stava decidendo l’ entrata in guerra dell’Inghilterra per affiancare la Francia nel rispetto dettato di un’antica alleanza fra Londra con Parigi e San Pietroburgo, affermava di fronte ai deputati: “Le luci si stanno spegnendo in tutta l’Europa. Dubito che le vedremo riaccendesi di nuovo nel corso nella nostra vita”.

Cominciò il 2 agosto del 1914, fu una carneficina bollata da Benedetto XV come “inutile strage”. Quel Papa non venne ascoltato come oggi non viene ascoltato il grido di Papa Francesco, quel “la Nato abbaia sul confine della Russia” per poi lanciare un disperato appello: non distruggete l’umanità mentre ancora una volta dal fronte dell’ Est, dagli stessi luoghi della Galizia ai piedi dei Carpazi ( Leopoli, Kiev) che videro il sacrificio di centinaia di trentini coinvolti in quella guerra, torna a levarsi il grido delle donne, lo smarrimento dei bambini strappati a migliaia dalle loro case per rifugiarsi in terre lontane e a loro sconosciute. E’ lo stesso sacrificio delle donne trentine profughe un secolo fa nel profondo delle terre dell’ Impero e delle friulane e venete fuggite nelle città del Regno d’Italia dopo la rotta di Caporetto.

Un cenno attorno a cosa avvenne in quelle due città ancora nel cuore di quei trentini che ebbero antenati in divisa austriaca. Tra l’8 e l’11 settembre del 1914 si scatenò la battaglia di Godek/Rawa-Ruska passata alla storia come la seconda battaglia di Leopoli. Fu una carneficina che lascò sul terreno oltre duecento mila morti. I russi attaccavano in masse fittissime che andavano a letteralmente a ricoprire le postazioni di mitragliatrici e cannoni dell’esercito austro ungherese. Fu una strage per i soldati dello zar e una disfatta per l’esercito di Francesco Giuseppe costretto ad una ritirata che minacciò di trasformasi in rotta. Anche un tentativo di resistenza sul fiume San, affluente di destra della Vistola, venne travolto dai russi che avanzavano senza posa. Leopoli divenne caserma, ospedale e cimitero per oltre mezzo milioni di uomini dei due eserciti. Nell’estate del 1915 poco dopo l’ingresso del Regno d’Italia nella carneficina, molti soldati trentini fatti prigionieri dai russi, vennero trasferiti a Kiev e da lì smistati nei 45 governatorati dell’immenso territorio russo. Parlavano italiano, l’Italia si era alleata anche con la Russia e così i trentini – e molti di loro si erano dati prigionieri per sfuggire al grande massacro – venero impiegati come contadini nella campagne o come boscaioli nelle foreste, oppure nelle industrie e alcuni che provenivano dalla Valle della Fersina dove avevano imparato il mestiere, nelle miniere. Ebbero come si legge nell’appendice del librino “Austriacanti” di Giorgio Postal e Mauro Marcantoni, contratti che definivano gli orari di lavoro, il salario e più in generale, le condizioni delle loro prestazioni. Qualcuno di loro strinse anche legami di amicizia, che in molti casi si consolidarono nei matrimoni. Sempre nell’estate di quell’ anno, la cittadina di Kirsanov, 600 chilometri a sud di Mosca, venne indicata come luogo di raccolta dei prigionieri “irredenti”, cioè di quei soldati dell’esercito austriaco che, invece dell’orrore delle trincee, avevano scelto di diventare cittadini del Regno d’Italia e si erano arresi ai russi.

Durante quella guerra in tutti i Paesi belligeranti, mentre milioni di soldati combattevano nelle trincee, milioni di donne occupavano i posti di lavoro abbandonati dagli uomini chiamati alle armi ed avviati al fronte dal quale moltissimi non sono più tornati. Su quelli dell’Ovest arrivarono i “volontari” dall’India, Indocina, Senegal, Algeria, Marocco. Giovani uomini che, forse, avevano vagamente sentito di una località chiamata Europa, costretti a combattere per quella gente chi li aveva trattati come schiavi e che in Francia come in Inghilterra venivano tenuti lontano dai luoghi abitati. Perché si temeva che, selvaggi come venivano descritti da chi li aveva reclutati con l’inganno e con la forza, aggredissero donne e bambini. A migliaia di chilometri dall’Europa rimasero le loro donne assediate dalla miseria derivata dall’abbandono. Chissà quante di loro non vennero neppure avvertite della sorte di quei giovani uomini spariti nel nulla in una guerra che per loro era senza un perché.

La stessa cosa accadeva nell’Impero russo dove lo zar Nicola aveva a disposizione una massa enorme di soldati armati a suon di rubli dalla Francia, soprattutto dall’Inghilterra ma anche dalla Germania e dall’Austria. Arrivavano dalla Siberia, dagli Urali, dalla Mongolia. Comandati da ufficiali che li trattavano senza un briciolo di umanità venivano spinti avanti, dopo essere stati benedetti da sacerdoti che innalzavano sopra le masse, icone credute miracolose. Erano orde compatte, spesso precedute dalla cavalleria cosacca che nelle cariche non faceva prigionieri. E forse per la prima volta si capì che in ogni guerra ci sono solo due vincitori: il produttore di armi e il mercante di cannoni.

Sappiamo come sono finite tutte le guerre. Gli Stati mandarono al macello interi popoli facendo un uso indiscriminato di nuove tecnologie, nelle armi da fuoco così come nei gas asfissianti. Poi al culmine della carneficina, i feroci nemici diventarono amici e, come si legge nell’ultima strofa della poesia “ninna nanna” di Trilussa scritta nel 1914: “Riuniti fra di loro - senza l’ombra di un rimorso - ci faranno un bel discorso - sulla pace e sul lavoro - per quel popolo coglione - risparmiato dal cannone”.

Era di maggio, il “maggio radioso” del 1915, quello che segnò per gli italiani l’inizio di quella disumana tragedia passata alla storia come la Grande Guerra. La massa di soldati aveva già raggiunto, nella famosa radunata definita occulta, gli accampamenti a ridosso dei confini dell’impero di Francesco Giuseppe, manovra che doveva essere segreta visto che Roma era ancora alleata con Vienna e Berlino nella “triplice”. Si stava preparando quella furia che avrebbe dovuto elevare l’Italia ricca di analfabeti, assediata dalla miseria, dalla malaria e dalla pellagra, a rango di grande potenza. Certo, da mesi i giornali, soprattutto le grandi pagine a colori de “La Domenica del Corriere” che, pennellate da Achille Beltrame, raccontavano l’enormità di quella guerra, avevano narrato ogni miseria dei campi di battaglia. Si combatteva ormai dal 2 agosto del 1914 in Francia e in Russia, dalla Marna al fiume San; il Regno si preparava a varcare l’Isonzo per raggiungere Trieste. Si pensava d’arrivare a Trento ma fino al 28 ottobre del 1918 Trieste era ancora molto lontana e il Regio Esercito era trincerato un po’ a sud di Serravalle di Ala. Certo la “Domenica” che arrivava anche negli sperduti paesi di campagna e in cima alle solitarie vallate, trasmetteva i più importanti avvenimenti del mondo procurando – questo lo scrisse Dino Buzzati seduto sulla terrazza del famoso rifugio “Marmolada” gestito negli anni Sessanta da Mario Iori – “una valanga di notizie portate a conoscenza di intere generazioni di italiani che altrimenti non avrebbero saputo nulla o quasi”. Ci si trovò di fronte “ad un maestro dell’arte grafica, ma anche ad un formidabile maestro del giornalismo “ che raccontò minutamente, ma inutilmente ad un popolo che stava per scoprire ogni tormento, ogni orrore di quella strage.

In quella vigilia che la retorica definì sublime, sacra e gloriosa, le donne vivevano fra un’ ansia crescente mentre fra quelle che abitavano nella grandi città, c’era l’orgoglio di farsi vedere sottobraccio al loro uomo in divisa. Molte, soprattutto nei paesi, si trovano in chiesa dove il parroco le invitava a pregare soprattutto nei giorni della novena di Pompei e della festa di santa Rita, due momenti particolarmente coinvolgenti fra il popolo dei devoti. Ma prima del tuonare dei cannoni un enorme disastro colpì il Regno: Il terremoto della Marsica del 13 gennaio del 1915 che uccise 30.519 soprattutto fra donne, bambini, anziani perché gli uomini più giovani erano, in massa, sotto le armi, concentrati nel Veneto. La tragedia evidenziò l'impreparazione dello Stato italiano e quattro mesi dopo i giovani marsicani furono portati sul fronte dellì’Isonzo e in duemila persero la vita.

Fra le macerie rimasero le donne. Abbandonate, anzi dimenticate e lì attorno ad Avezzano cominciò la tragedia del fondo femminile mentre soprattutto nelle città del nord un folto gruppo di intellettuali cominciò a predicare la guerra. Il trentino Cesare Battisti che lasciata l’Austria premeva perché il Regno dichiarasse guerra a Vienna. Di spicco Benito Mussolini collega a Trento di Battisti e di Ernesta Bittanti, pacifista accanito fin che fu direttore del quotidiano socialista “l’Avanti” per diventare interventista con i soldi dei francesi che gli permisero di fondare “Il Popolo d’Italia” il giornale più bellicoso nella storia d’Italia. E poi c’era Gabriele D’Annunzio scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista e quando Parigi gli saldò tutti i debiti, interventista e figura di spiccato rilievo nel partito della corsa alle armi composto da una minoranza urlante che ebbe ragione sulla maggioranza silenziosa che non voleva la guerra.

E Wikipendia ci narra con bravura di un altro personaggio, quel Filippo Tommaso Marinetti il fondatore del Futurismo morto nella sua dimora di Bellagio sul Lago di Como nel dicembre del 1944. Anche lui giornalista, poeta, scrittore, drammaturgo, si mostrò accanito sostenitore dell’ aggressione all’Austria. Aggiungo che nessuno degli intellettuali invasati dell’ interventismo - Battisti, Mussolini, D’Annunzio, Marinetti - pensò cosa potava scatenare una guerra nel mondo femminile che lasciò nel solo Veneto tredicimila orfani.

Complicata la storia di quel movimento chiamato Futurismo che fu un crogiuolo letterario, culturale, artistico musicale tutto italiano dell'inizio del Novecento nonché una delle prime avanguardie europee che ebbe una potente influenza su movimenti analoghi che si svilupparono in altri paesi, soprattutto in Francia, in Russia. negli Stati Uniti e in Asia. I futuristi s’addentrarono in ogni forma di espressione della cultura: pittura, scultura, letteratura, teatro, musica, architettura, danza, fotografia, cinema persino la gastronomia. Prima del “Le Figarò” di Parigi, la “Gazzetta di Parma” pubblicò il Manifesto futurista sostenendo il diritto al voto per le donne, il divorzio facile,la svalutazione della verginità, esaltando il libero amore, ridicolizzando la gelosia. Marinetti si definì “femminista” in un mondo maschilista, scelta che sfuma nel 1915 nello scritto “Contro l’amore e il parlamentarismo” dove le donne sono definite “pacifiste, passatiste, conservatrici per natura quindi antagoniste del futurismo”. Inoltre la donna “come i vecchi e i malati, fanno parte del gruppo di deboli che frenano l’avanzata guerriera dei futuristi”. Per aggiungere: “poiché i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, poiché noi temiamo che le braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia la mattina della partenza [verso il fronte]… Che mai pretendono le donne, i sedentari, gli invalidi, gli ammalati […] noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo”. Insomma Marinetti nel suo manifesto di fondazione del Futurismo dove è segnato il disprezzo della donna scrive quel “noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.

Nel travolgente dibattito sull’ ingresso dell’Italia nella guerra, i futuristi si schierarono con gli interventisti e a Milano, al Teatro Lirico inscenarono una violenta manifestazione al grido di “abbasso l’Austria”, gettando dal loggione fasci di manifestini inneggianti la guerra, incendiando una bandiera dell’Impero butta sulla folla. La polizia arrestò Marinetti, i giornali insorsero contro quell’arresto anche perché in quei giorni di smarrimento della ragione, il furore iconoclasta si traduceva, per fortuna solo a parole, in una furia che voleva abolire le biblioteche, i musei, i teatri esaltando lo schiaffo, il pugno e il passo di corsa. Ecco, il “passo di corsa” quello dei Bersaglieri. A Milano, quasi ogni pomeriggio, la fanfare dei fanti piumati attraversava la galleria Vittorio Emanuele. Sembrava un volo di rondini facendo apparire quella guerra che s’andava preparando come una festosa parata.

Marinetti declamava “Noi disprezziamo la donna concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile, ossessionante, la cui voce greve di destino e la cui chioma sognante si prolungano nei fogliami delle foreste bagnate di chiaro di luna”. Intanto Battisti scriveva l’ eccellete guida geografica che indicava strade e sentieri per invadere il Trentino, Mussolini riceva a Palazzo Farnese sede dell’ambasciata di Francia a Roma quella notevole somma di danaro che gli permise, lasciata la direzione del “l’Avanti!”, di fondare il bellicoso “Il Popolo d’Italia” testata in parte mutuata da “Il Popolo” di Cesare Battisti e “il gabriello” – così D’Annunzio venne chiamato dai fanti italiani ingabbiati nelle trincee del Carso – dallo Scoglio di Quarto commemorando l’anniversario della Partenza dei Mille dichiarava guerra all’ Austria che da alleata nella Triplice diventava lo storico nemico.

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