La storia della Sloi, le nubi tossiche sulla città e quelle tonnellate di piombo  velenoso ancora lì

di Luigi Sardi

In un pomeriggio dell’estate del 1953, forse era di luglio, dalla Sloi si alzò una densa nube di cloro che investì il quartiere di Cristo Re. Si racconta della gente che fuggiva impaurita verso il centro città, di quattro operai e almeno trenta persone ricoverati al Santa Chiara che all’epoca si apriva in via Santa Croce, di molta gente investita da quella nube soffocante, di odore estremamente pungente, di uomini e donne svenuti o che vomitava per strada.

Non so se ci fu un’inchiesta da parte della magistratura. La guerra era finita da otto anni, erano state appena sgomberate le macerie attorno a Torre Vanga e in San Martino mentre in tutta l’Europa cresceva la voglia di automobile che da bene di lusso diventava popolare. In più c’era la “guerra fredda” e nel mondo occidentale, che si opponeva al blocco sovietico creato da Iosif Vissarionovic Dzugavisvili, cioè Stalin, il figlio dell’acciaio, morto proprio quell’anno, si viveva con il dito sul grilletto dei fucili mentre i militari di naia di mezza Europa facevano la guardia a quella “cortina di ferro” che si estendeva d Lubecca a Trieste e Corfù. Con gli italiani che oltre ai russi accampati a Salisburgo e che potavano varcare il Brennero da un giorno all’altro dovevano guardarsi dai soldati di Tito che stazionavano sulle alture attorno a Trieste e potavano attraversare la famosa “soglia di Gorizia”.

Per fronteggiare la Russia servivano gli aerei, molti aerei, e il “pt” della Sloi, l’antidetonante della benzina era sempre più importante e poiché era distillato a Campotrentino (unica fabbrica in Europa) in quantità nettamente superiore a quello prodotto negli Stati Uniti, era diventato il liquido più redditizio. Così alla Sloi, tornata strategica nel panorama industriale dell’Occidente, detto – e non a torto “mondo libero” – la produzione era aumentata vertiginosamente e gli operai facevano volentieri gli straordinari perché erano pagati bene e subito.

Certo, molti si ammalavano, o meglio “davano di matto” come si diceva all’epoca e poiché, appunto in quel tempo era estremamente difficile tracciare un confine fra l’ avvelenamento da “pt” e quello conseguente a forti bevute di alcolici, ecco molti operai trasferiti al manicomio di Pergine e le loro donne sentirsi dire che il loro mariti o padri o fratelli erano diventato un rottame per il vizio del bere che avevano saputo tenere fino a quel momento accuratamente nascosto. Ma era saturnismo, avvelenamento del cervello a causa del piombo di lavorazione.

A proposito di cloro. All’indomani di quel 12 dicembre del 1969 giorno della bomba di Piazza Fontana in quel di Milano e mentre si andava preparando la guerra civile con le stragi di Piazza della Loggia a Brescia e di via Fani segnata dal rapimento di Aldo Moro, venne coniato lo slogan “Cloro al clero, diossina alla Dc e piombo tetraetile all’ Msi”. Dunque nel grido della rivoluzione mancata, il cloro era per i preti, la diossina della Icmesa di Seveso in quello che venne indicato fra le dodici catastrofi ambientali provocate dall’uomo, era destinata alla Democrazia Cristiana mentre il più micidiale piombo tetraetile venne “consegnato” al Movimento sociale italiano l’ erede dal fascismo, cioè il male assoluto da punire con un veleno totale.

In una data incerta, probabilmente reperibile negli archivi di Palazzo Thun, all’allora sindaco Nilo Piccoli venne consegnata una petizione con 1007 firme. La popolazione di Cristo Re protestava per "le esalazioni tossiche provenienti dalla zona industriale di Campotrentino e dagli scarichi degli stabilimenti nelle acque del canale Lavisotto ammorbando l'aria in vaste zone cittadine e in particolare in quella a nord” del centro storico.

Con l’arrivo della facoltà di Sociologia e dopo l’alluvione del 3 novembre 1966 (che rischiò di far esplodere tutta la fabbrica) un gruppo di studenti cominciò ad interessarsi sul tema del lavoro nella Sloi.

Mezzo secolo fa si lavorava soprattutto a mani nude e nei piazzali i “pani” di piombo venivano frantumati con mole e mazze per esser fusi a 600 gradi con bruciatori a gasolio. Poi il piombo fuso veniva mescolato al sodio, un minerale tenero, che si taglia con un coltello e che a contatto dell’acqua si infiamma con violenza.

Il sodio veniva conservato in fusti sigillati e colmi di olio minerale. Quei barili provenivano dalla Russia e la sigla CCCR sormontata da una stella rossa era molto sbiadita forse in omaggio a vari embarghi che caratterizzavano gli altalenanti andazzi della “guerra fredda”. In poche ore si formava una lega che, macinata, veniva infilata nei “reattori”: erano 16, d’ acciaio, di colore nero, grossi e lunghi che parevano sottomarini. In quei “mostri” venivano iniettati etilene e bromo per determinare una reazione chimica che portava la lega ad una temperatura oscillante fra i 1000 e i 1200 gradi.

Ogni reattore aveva, come in ogni pentola pressione, una valvola di sicurezza detta “flangia” che qualche volta cedeva. Lo scoppio era potente, quel “coperchio” di metallo volava piuttosto in alto per ricadere dove capitava mentre gas, fumi e vapori schizzavano dalla botola portando nell’atmosfera la massa dei veleni.

La lavorazione procedeva con la distillazione del materiale che da una quantità di 800 quintali si riduceva, si fa per dire, a 240 quintali di prodotto finito e subito consegnato ai committenti. Costava molto e i pagamenti erano immediati.

Periodicamente si doveva ripulire l’interno dei reattori e un operaio che stringeva fra i denti un boccaglio collegato ad un tubo di gomma per suggere dall’esterno l’aria, veniva calato in quella specie di sarcofago e cominciava a raschiare a mano le pareti di metallo. Il buio era tale perché nel ventre dei reattori non si potevano accendere luci si sorta per evitare esplosioni; si lavorava in fretta in quel luogo dove “mancava l’aria” e i residui che il raschietto o qualche cosa di simile toglieva dalle pareti, impiastricciavano le parti di viso non coperte dalla maschera di gomma che puzzava come tutte le maschere in uso in quegli anni lontani nel tempo, ma non dalla memoria.

“Tirami su” gridava l’operaio che veniva subito recuperato mentre il secchio colmo di residui veniva scaricato sul pavimento di cemento molto logoro e pieno di fessure – lo ricordo molto bene – e i residui composti da liquame male odorante che sapeva di gomma bruciacchiata e di cipolle malamente arrostite, lentamente ma inesorabilmente, sparivano nel terreno per scendere giù nel profondo, fino a quello stato di argilla che lo separa dalla falda acquifera indicata nelle tavole processuale formate dall’inchiesta della procura della Repubblica presso la pretura. Falda che sarebbe spessa due metri e che ancora separa la massa avvelenata dalla falda acquifera.

Fino a mezzo secolo fa non c’erano “pattumiere” per raccogliere i rifiuti industriali. In Val di Fiemme, a Stava, i residui della fluorite venivano convogliati in quelle dighe cresciute senza un progetto e crollate il 19 luglio del 1985 uccidendo 268 persone. Allo Sloi, alla Carbochimica dove l’inquinamento da idrocarburi sembra più facile da smaltire e alla Prada - anche quello stabilimento venne distrutto da un incendio – i rifiuti venivano interrati e l’acqua totalmente inquinata, semplicemente scaricata nella fossa degli Armanelli che sfocia nell’Adigetto, quindi nell’Adige.

Le acque che scorrevano erano limpide; ci giocava quando era ragazzetto, anche Giacomo Santini poi diventato giornalista de L’Adige, della Rai quindi senatore ed europarlamentare. Acque pulite, ma sono inquinati i fanghi. Il resto dei rifiuti veniva infilato in fosse più o meno profonde che se individuate - come pare – potrebbero rendere più rapida la bonifica.

Nei terreni della Sloi, le scorie rese grevi dalle particelle di piombo, continuano, lentamente ma inesorabilmente a scendere. Sono state al centro di laboriose analisi presentate oltre 25 anni fa in un affollato convegno dove comparvero molti tecnici di conclamata fama accompagnati da illustri avvocati perché si profilava la possibilità di ottenere la paternità di una operazione di risoluzione dell’ inquinamento che si profilava – c’era ancora la Lira - miliardaria.

Tutto rimase come prima, all’originario progetto di bonifica che prevede l’ ermetico isolamento sotto una copertura stagna dell’intera area, la raccolta del terreno – la quantità calcolata è in vero enorme, circa 13o mila tonnellate si è scritto più volte senza smentita – l’inscatolamento di porzioni di terra in contenitori poi sigillati, il trasferimento con vagoni anche quelli sigillati nelle saline dismesse di una località tedesca vicina al confine con la Polonia per ficcare il tutto alla profondità di 800 metri e tenerlo per l’eternità. Perché nel profondo di una salina? Per escludere il rischio di contatti con falde acquifere. Costi enormi; la presenza a Trento Nord di un cantiere molto complesso che prevedeva troppi rischi. Nulla avvenne. E forse, nulla avverrà.

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