Politica / Editoriale

I messaggi di Draghi ai soliti sordi

L’editoriale domenicale del direttore dell’Adige Alberto Faustini

Siamo già piombati in campagna elettorale. Alla faccia dei due presidenti che garantiscono stabilità. Alla faccia degli applausi di un Parlamento che ha parlato la stessa lingua per un sol giorno: il tempo di uscire dal guano per poi farvi ritorno. L'osannato Draghi viene sostenuto - dai ministri e nei bei discorsi - e preso a bordate: alla Camera e al Senato, dove la super maggioranza che lo sostiene perde pezzi a seconda delle emozioni.

Per fortuna al Quirinale è rimasto Mattarella: perché sotto il Colle c'è già aria di crisi e ci vuole uno che sappia tenere ben saldo il timone, in questi mesi che avrebbero dovuto garantire acque chete ed equilibrio e che in realtà somigliano già al mare in burrasca.

Rivolgendosi ai giornalisti, l'altra sera il presidente Draghi se n'è uscito con una battute delle sue: «Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo governo». Messaggio a nuora (la stampa, che ha il compito di diffonderne il pensiero) affinché suocera (i partiti, che dovrebbero sostenerlo e molti dei leader che invece sognano solo di azzopparlo) intenda. Due i messaggi, nemmeno troppo sottintesi. Primo: nel governo va tutto bene, non ci sono fronde o fratture.

Secondo: fatevene una ragione, voi che dal Parlamento cercate di metterci in difficoltà. Peccato che però un governo abbia bisogno del continuo consenso del Parlamento: per esistere; non solo per resistere. Giusto per essere ancora più esplicito, qualche ora prima, il presidente del consiglio era salito al Quirinale per dire (al presidente della Repubblica e di fatto al Paese, sempre affinché altri capissero) che lui non sta certo al governo per tirare a campare. Un altro lavoro - ha persino aggiunto - lo trovo facilmente.

Al di là dei messaggi non certo subliminali che arrivano all'inquilino di palazzo Chigi dai vari leader di partito, gli esiti possibili sono solo due: aggrapparsi a Draghi fino alla fine della legislatura e magari anche oltre, visto che più d'uno considera importante che il capo del governo non molli finché non ha portato a termine il suo programma (che è fatto di ripresa e resilienza, ma anche di molto altro) o andare a votare.

Con le mille incognite che un voto sempre più simile a un salto nel buio si porterebbe dietro. Una fra tutte: sarebbe folle votare senza aver prima approvato una riforma elettorale decente, magari con una correzione proporzionale e con una soglia che aiuterebbe i partitini ad unirsi da una parte e a sopravvivere dall'altra. Il fatto resta, però: Draghi ha fatto capire che non "governicchierà" e che non lascerà la sua firma sul fallimento - a quel punto certo - del piano di ripresa. In un minuto tornerebbe sul Colle per rimettere nelle mani del presidente un incarico che - in assenza di cambiamenti - faticherebbe ad onorare in un determinato modo. Ma la distanza di alcuni politici dal Paese è tale che molti leader non hanno capito due cose. Che tutti li abbiamo visti: mentre non riuscivano a trovare un presidente della Repubblica e mentre cercavano di impallinare l'unico capo di governo che poteva e ancora può renderci credibili agli occhi dell'Europa e del mondo: Mario Draghi.

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