Editoriali / Storia

A San Michele all’Adige la tappa della finta evasione di Kappler

La prima tappa dei complici di quella che dove sembrare un’evasione in piena regola avvenne ad una manciata di chilometri a nord di Trento, a San Michele all’Adige, nell’area di servizio dell’Autobrennero denominata Paganella Est

TRENTO. Herbert Kappler divenuto il simbolo della violenza nazista in Italia, lo fecero fuggire dall’ospedale militare del Celio nella notte del Ferragosto del 1977 e la prima tappa dei complici di quella che dove sembrare un’evasione in piena regola – invece era concordata fra Roma e il Governo di Bonn, all’epoca la Germania era ancora divisa – avvenne ad una manciata di chilometri a nord di Trento, a San Michele all’Adige, nell’area di servizio dell’Autobrennero denominata Paganella Est.
 

Quello che in un primo tempo venne indicato come un mistero era in realtà di una semplicità disarmante. Accompagnato dalla moglie, l’ex ufficiale delle SS uscì dal reparto Chirurgia Ufficiali del Celio, si sdraiò sul divanetto posteriore della Fiat 132 di colore rosso vivo targata Roma presa a nolo alla Hertz dell’aeroporto di Fiumicino che, guidata da Annelise Wenger raggiunse un parcheggio della Capitale dove il criminale di guerra e il veicolo vennero presi in consegna da agenti dei servizi segreti italiani. Subito la grossa berlina imboccò l’autostrada del Sole diretta a Nord. Notte serena e calda, autostrada quasi deserta, il motore dell’ammiraglia delle Fiat a rombare perfetto fino al piazzale di Paganella Est.
 

Dall’articolo scritto per il giornale “Alto Adige” da Enrico Bortolamedi in base alle testimonianze raccolte a San Michele all’Adige: “Dall’auto decisamente vistosa per il suo colore e perché era l’ammiraglia della Fiat” da ricordare che in quell’’epoca trionfavano le utilitarie, “scesero due uomini uno forse di cinquant’ anni e di statura media, l’altro più giovane, alto, snello, capelli biondi e folti. Due uomini dai modi decisi che cercavano un meccanico e che, quasi subito, si allontanarono in direzione di Bolzano a bordo di un’Audi con targa tedesca”, Facendosi notare dagli addetti ai distributori di carburante dissero in un buon italiano che il motore della Fiat aveva dei problemi.
 

La scoperta della causa del guasto fu immediata: la fusione del motore provocata svitando con l’apposita chiave il tappo della coppia dell’olio che sotto la vettura stava provocato una larga chiazza. Quando arrivò la polizia a sequestrare l’automezzo, la notizia dell’evasione occupava già da due giorni le prime pagine di tutti i giornali d’Europa e il trucco di far trovare il veicolo usato per la fuga ad un centinaio di chilometri dal confine con l’Austria serviva a dimostrare che Kappler era già in terra tedesca mentre era ancora a Roma in un convento di frati “sull’isola Tiburtina”. Questo venne dichiarato molti anni più tardi dal generale di divisione Ambrogio Viviani, ex capo del Sismi – il servizio informazioni sicurezza militare – al quotidiano “La Repubblica” che il 14 marzo del 1986 dedicò un’intera pagina alla celebre evasione.

“Non si trattò di una fuga. I politici italiane avevano promesso al Governo di Bonn di liberarlo. E qualcuno in quell’occasione si comportò di conseguenza dietro ordini precisi. Infatti i carabinieri addetti alla sorveglianza dei detenuti militari ricoverati all’ospedale del Celio, furono imputati di violata consegna e non di procurata evasione, perché non vi fu evasione anche se tale venne fatta apparire all’opinione  pubblica”. In sostanza il generale di divisione e già dirigente dei servizi di controspionaggio affermava che “il processo nei confronti del capitano dell’Arma Norberto Capozzella, dell’appuntato Luigi Falso e dei militari Oronzo Pavone e Giuseppe Giovagnoli aveva lo scopo di acquietare l’opinione pubblica e non quello di divulgare la verità”.
 

Il generale aggiunse che il tumore non curato – o meglio, empiricamente affrontato da Frau Annelise – aveva gravemente debilitato l’ex ufficiale quindi un viaggio in auto fino al Brennero non sarebbe stato possibile. E i testimoni che nell’area di servizio videro quell’auto rosso fiamma non notarono né una donna né un anziano assai malconcio: dunque la sosta a San Michele all’Adige fu un diversivo mentre gli agenti dei servizi segreti italiani trasferivano l’ex detenuto dall’Isola Tiburtina a Desenzano e poi a Bergamo “dove fu consegnato ai tedeschi. Come atto di gratitudine la Germania concesse un prestito all’Italia. Giulio Andreotti sapeva tutto”. Dunque denaro in cambio di un criminale di guerra colpito da un tumore che lo ucciderà dopo pochi mesi. Quando Viviani morì venne pubblicato un lungo necrologio che comincia così: “La Bandiera Italiana si inchina oggi alla memoria di uno dei suoi più valorosi, onesti e integerrimi Generali dell'Esercito”.
 

Raccontò Frau Wenger che con l’auto noleggiata era entrata nel cortile dell’ospedale romano dove da molto tempo, era solita parcheggiare le auto prese a nolo ogni volta che dalla Germania arriva a Fiumicino. Raccontò, ma nessuno accettò quella confessione, che ficcato il marito in una valigia lo calò dalla finestra. Ovviamente in Italia si indignarono tutti per quella che venne indicata come un’evasione.  Ma nove anni dopo quel generale ormai in pensione fece scoppiare il “caso Kappler” confermando l’accordo Roma-Bonn per liberare un criminale di guerra ormai in fin di vita. E, naturalmente, tutti tornarono ad indignarsi.
 

Andreotti rimase zitto ma la denuncia di Viviani almeno servì a ricostruire la figura di Kappler descritto come un uomo intelligente, colto e un perfetto ufficiale delle Schutz-Staffel (schiera di protezione), quella milizia speciale e altamente addestrata, destinata a compiti di polizia durante il regime nazionalsocialista fondata nel 1929 dal Reichsführer Heinrich Himmler uno dei grandi geni del Male Assoluto. Quell’uomo che non tremò guardando da uno spioncino cosa accadeva in una camera a gas, annotò nel suo diario pubblicato qualche decennio fa dal giornale Bild: “Nessuno ha visto 100, 500, 1000 corpi che giacciono insieme. Aver visto cose del genere, ed essere rimasti freddi e impassibili, ci ha resi duri e freddi. È una pagina di gloria che non viene mai menzionata. Sappiamo quanto sarebbe difficile oggi, se accanto ai bombardamenti delle città tedesche, alle privazioni della guerra, ci fossero ancora gli ebrei come sabotatori segreti, agitatori e istigatori. Abbiamo svolto questo compito difficile per amore del nostro popolo. Non c'è nulla di sbagliato dentro di noi, nella nostra anima, o nel nostro modo di fare".
 

Kappler conosceva Himmler e sia pure in scala molto ridotta, applicò i suoi metodi in Italia. In uno dei processi dichiarò che voleva andare al fronte, ma poiché parlava un perfetto italiano, oltre all’inglese e – così si disse al latino e al greco – nel 1939 venne destinato a Roma come “attaché” dell’ ambasciata di Germania. Il suo compito principale? Controllare o meglio spiare cosa facevano gli italiani. Conosceva benissimo l’attività delle SS-Totenkopfverbände che avevano il compito di concludere la soluzione finale nei campi di sterminio e la sera del 23 marzo del 1944 quando a Roma in via Rasella i partigiani piazzarono la tragica mina che uccise trentatré militari, tutti sudtirolesi del battaglione Bozen, organizzò rapidamente con il questore di Roma Pietro Caruso, Erich Priebke e Karl Hass personaggio che riapparirà nella famosa storia del tesoro di Fortezza, la rappresaglia consentita dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Stabilito che si dovevano uccidere 10 italiani per ogni soldato morto nell’attentato, in verità Hitler aveva ordinato di ucciderne 50 per ogni tedesco, sbagliò - ovviamente per eccesso – il banale, tragico conteggio e così si assassinarono 5 italiani in più.

Portati per errore all’ imbocco delle Fosse Ardeatine vennero eliminati perché testimoni della rappresaglia compiuta in fretta e soprattutto segretamente. Infatti solo dopo la strage si annunciò l’ eccidio con un comunicato pubblicato anche dal quotidiano “Il Trentino”, testata che da poche settimane aveva sostituito quella denominata “Il Brennero”. Nell’annuncio diffuso lo stesso 25 marzo e in tutta la successiva propaganda sulla stampa controllata dai nazifascisti, il numero delle vittime è fissato in 320 fra “badogliani, comunisti e terroristi”. Solo dopo la liberazione di Roma e il recupero delle salme si apprese che gli uccisi erano 335.
 

Da tempo sappiamo che il giorno dopo l’eccidio il capitano Schutze e Priebke riferirono a Kappler che rileggendo l’elenco degli italiani assassinati, risultava che i fucilati erano appunto 335, cinque in più del numero fissato da Kappler; Priebke era sicuro che l’errore era dovuto alla lista degli ostaggi fornita dal questore Caruso. Ma Caruso nel processo concluso con la fucilazione dell’imputato, dichiarò che i cinque ammazzati “di troppo” erano “detenuti a disposizione dei tedeschi”.
 

Poi venne a galla un’altra impresa del comandante della Gestapo. Il 17 gennaio del Quarantatre l’ ambasciatore tedesco a Roma aveva fatto presente a Palazzo Chigi che tutti gli ebrei erano nemici dell’Asse. Pertanto il governo tedesco concedeva un mese e mezzo a quello italiano per far rientrare gli ebrei italiani che si trovavano nei territori occupati. Poi avrebbe agito contro quelli che non fossero rimpatriati perché entro la fine del 1943 tutti gli ebrei d’Europa dovevano essere eliminati. L’ ambasciatore era accompagnato da Keppler che appariva insolitamente minaccioso verso gli italiani. Inoltre la Germania aveva deciso di eliminare in Jugoslavia il “banditismo“ cioè le formazioni partigiane di Tito che combattevano, con altrettanta ferocia, le armate italiane e tedesche. Hitler volevano far cessare “i rifiuti e i silenzi frapposti dal ministero degli Esteri”, dicastero tenuto da Mussolini, “e dalle autorità militari alle richieste volte ad ottenere la consegna degli ebrei che si trovavano o si erano rifugiati nelle zone di occupazione italiana”. Come ha scritto Renzo De Felice nel volume “Mussolini l’alleato”. E come scrisse il “Corriere della Sera” negli anni Cinquanta ricostruendo con i testimoni che ancora erano vivi, quell’ incontro.
 

Si narra che Vittorio Emanuele III raccomandò di non cedere sulla questione degli ebrei, forse per un tardivo pentimento per aver avvallato le tragiche leggi sulla razza del1938. Ma in quell’ inizio del ‘43 finalmente venivano a galla le perplessità di quanti nel 1940 erano stati silenziosi spettatori di una diffusa ostilità alla guerra e specie di una guerra a fianco della Germania contro la Francia e l’Inghilterra che per molti restavano ancora gli alleati del 1915-18. Inoltre l’andazzo delle vicende militari allargava il crescente e profondo abisso che si andava scavando fra il paese e Mussolini. Si era capito che la preparazione militare era un tragico bluff, i soldati compivano il loro dovere ma erano male armati, malissimo equipaggiati e mandati al fonte con la mentalità che aveva dominato vent’ anni prima, la tragedia del Carso e dell’Isonzo.

Il fascismo cadeva a pezzi, ci si accorgeva che il “patto d’acciaio” e la politica razziale erano le negazioni della tradizione risorgimentale e con questo clima di sfacelo, Mussolini sempre deciso ad assumere il ruolo di pacificatore assaggiato in occasione della crisi cecoslovacca del 1938, si preparava all’incontro con Hitler nel castello di Klessheim, località vicina a Salisburgo. Era l’ 11 aprile 1943 e il Duce si recò in Austria per quello che a guerra finita, venne definito un “incontro sconcertante”.

Mussolini partì da Roma con idee ben precise: Il Regio Esercito era allo stremo, il decantato Impero non c’era più, l’Italia tutta era alla fame. Il Duce disse al Fhürer: “La situazione è così grave che occorre prendere decisioni estreme; una è la richiesta di pace separata con la Russia. Hitler – questo lo ha scritto Renzo De Felice – continuava a mantenere una incredibile sicurezza. “Stiamo perdendo l’Africa” disse il Duce. “L’Africa?” gli rispose il Führer.  

“L’Africa sarà difesa. Non vedo perché non dovremmo resistere in Africa. Col vostro aiuto, Duce, le mie truppe faranno di Tunisi” dove gli alleati erano già sbarcati per accerchiare le armate dell’Asse in Cirenaica, “la Verdun del Mediterraneo”. Il Duce non reagì, non tentò di imporsi. Del resto, si intimidiva – era già successo nella Trento ancora austriaca quando venne espulso con un provvedimento di polizia – quando da solo, si trovava di fronte ad un personaggio più autorevole di lui. Certo Stalin era pronto ad una tregua. Ma poneva una condizione: la Germania doveva abbandonare, e farlo subito, tutti i territori occupati.
 

Intanto Kappler continuava il suo lavoro. Il 17 aprile per tentare di stroncare le forze partigiane che operavano nella periferia di Roma, diede l'ordine di rastrellare il Quadraro, quel quartiere che si estende dalla Casilina alla Tuscolana, una zona attraversata dai convogli tedeschi che portavano rifornimenti alle truppe della Linea Gustav che inchiodava gli alleati a Cassino.

I partigiani del CLN e di “Bandiera Rossa compivano attacchi alle forze tedesche assalendo le colonne dei convogli, cercando di rendere difficili i rifornimenti alla Gustav, soprattutto a Monte Maio avamposto di difesa di Monte Cassino; fra gli obiettivi c’era anche quello di ridistribuire alla popolazione ridotta alla fame i viveri sottratti ai tedeschi. La collaborazione tra partigiani e la gente del quartiere era diventata strettissima. In cambio dei viveri, la popolazione copriva la fuga dei partigiani, aiutava la resistenza e ospitava disertori che si sottraevano alle pattuglie germaniche. Era molto forte l’aiuto dei parroci e così il tessuto sociale e la condivisione delle identiche istanze e degli stessi bisogni, insieme ad una conoscenza del territorio caratterizzato da una particolare conformazione geologica, fece si che questa parte della città diventasse un luogo dove era più semplice era nascondersi.
 

«Vuoi sfuggire ai nazisti? Rifugiati in Vaticano o vai al Quadraro»: così si diceva a Roma nei mesi terribili dell'occupazione e la fama di questo spicchio a sud-est della città veniva addirittura paragonata all'extraterritorialità vaticana. Il problema venne affrontato da Kappler che decise di impartire una lezione esemplare alla popolazione di quel quartiere chiamato “nido di vespe” dai tedeschi. Il 17 aprile del 1944 masse di armati entrarono nel quartiere, arrestarono più di 900 uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni subito deportati in Germania e costretti a lavorare nell'industria bellica. Alla fine della guerra, un numero imprecisato di abitanti del quartiere fece ritorno a casa dopo un estenuante viaggio fatto per lo più a piedi.
 

Poi Kappler scardinò l'organizzazione coordinata da monsignor Hugh O'Flaherty, un sacerdote irlandese che viveva in Vaticano. Lo si voleva uccidere perché ritenuto il personaggio che aveva salvato circa quattromila tra prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento, cittadini ebrei e perseguitati politici. Il prelato era riuscito a trasferirli in Vaticano o in conventi. Dopo la fine della guerra, O'Flaherty prese a visitare regolarmente nel carcere militare di Gaeta, Kappler che nel 1959 si convertì al cattolicesimo. Nel 1983 la vicenda è stata raccontata nello sceneggiato televisivo Rai “Scarlatto e nero” con Gregory Peck nel ruolo di monsignor Hugh O'Flaherty, e Christopher Plummer nei panni di Kappler.
 

Ecco infine il processo a Kappler consegnato dagli inglesi al Tribunale militare di Roma. Iniziò il 3 maggio del 1948 e si concluse il 20 luglio quando fu pronunciata la sentenza; giudice relatore fu il tenente colonnello Carmelo Carbone. La sentenza stabilì che l'eccidio delle Fosse Ardeatine, sproporzionato nelle modalità con cui era stato commesso, non si poteva considerare una legittima rappresaglia in base al diritto internazionale. L'ordine di uccidere 320 ostaggi, che Kappler aveva ricevuto dai suoi superiori, era un ordine illegittimo. Tuttavia i giudici in considerazione della rigida disciplina vigente fra le SS, ritennero non provata la circostanza che Kappler avesse eseguito l'ordine avendo coscienza della sua illegittimità. Così i giudici militari che certamente conoscevano l’orrore delle rappresaglie compiute dai soldati del Regio Esercito, lo prosciolsero dall'accusa limitatamente alle 320 vittime applicando la scriminante dell'adempimento di un dovere.

Lo ritennero invece colpevole dell'omicidio delle restanti cinque ammazzati, che, secondo i giudici, erano stati uccisi per decisione dell’imputato. Kappler fu condannato all'ergastolo con sentenza confermata in appello nel 1952 e poi passata in giudicato. Gli altri imputati furono assolti  in quanto agirono per ordine di un superiore. Kappler fu inoltre condannato per il reato di requisizione arbitraria, per aver estorto cinquanta chilogrammi d'oro alla comunità ebraica di Roma nel settembre 1943.
 

Negli anni successivi, in considerazione delle sue condizioni di salute, che i medici militari davano per sempre più gravi, nel novembre del 1976 la magistratura militare accordò a Kappler la libertà vigilata, consentendogli in tal modo di lasciare l'ospedale del Celio ma non il territorio italiano; tale decisione venne poi annullata per le forti proteste popolari e politiche. Kappler rimase quindi ricoverato al Celio, al terzo piano di un padiglione che ospitava il reparto chirurgia riservato agli ufficiali, in una stanza posta accanto all'ascensore, sorvegliato da carabinieri. Di qui, la mattina del 15 agosto del 1977 aiutato dalla moglie, Kappler fuggì – o meglio, se ne andò – tornò in Germania e si rifugiò nella casa di Frau Annelise a Soltau, dove ricevette visite di amici e ammiratori.

(15, continua)

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