La lanterna magica

Il Cln di Bolzano affida a Kappler l’inchiesta sulla strage di Stramentizzo commessa dalle SS

Giovedì 3 maggio del 1945. In Italia la guerra era finita dal 25 aprile, i russi stavano entrando a Berlino e i tedeschi si ritiravano in massa dal Trentino cercando di raggiungere il più in fretta possibile, e senza perdite l’Austria. A Stramentizzo in Val di Fiemme, un drappello di partigiani fermò un'ambulanza della Croce Rossa che trasportava un militare delle SS malato. Secondo un'altra ricostruzione i partigiani spararono sul veicolo. Di certo due soldati delle Waffen-SS furono uccisi e il tenente medico che accompagnava l’infermo, venne ferito. Nello scontro a fuoco morirono anche due partigiani.

Il giorno dopo una pattuglia di partigiani, si conoscono i nomi di Franz Kollmann disertore della Whermacht e Carlo Tonini della Valfloriana, bloccano una Kübelwagen con a bordo tre soldati delle SS; non era un nucleo isolato ma l'avanguardia di un reparto delle Schutzstaffel proveniente dal monte Altissimo che stava dirigendosi a Predazzo dove c’era la caserma della Gebirgskampfschüle der Waffen-SS, la scuola di guerra alpina delle SS. I militari erano stati informati dell’agguato all’ambulanza dall’ autiere della “auto-tinozza”, la camionetta Typ 82, che era riuscito a fuggire.

Così alle 6 del giorno seguente il reparto delle SS giunse a Stramentizzo: per rappresaglia venne circondata la frazione, 10 civili furono uccisi e alcune case incendiate. Morirono anche 11 partigiani che avevano attaccato la colonna mentre il resto della popolazione scappò nel bosco. La colonna in ritirata proseguì per Molina e Castello di Fiemme.

Si raccontava che Giacinta Dallabona in Corradini, viveva nella prima casa del paese (oggi casa Weber), allertata da alcuni abitanti di Molina di Fiemme che stavano scappando verso Cavalese, decise di far allontanare la popolazione di Castello di Fiemme: tutti gli uomini, gli anziani ed i bambini si nascosero nella foresta mentre le donne rimaste, anche questo è nei racconti in verità molto differenti a seconda dei brandelli di ricordi, prepararono nel fienile della casa della Dallabona un pranzo definito abbondante accompagnato da musica; i soldati quando arrivarono nel borgo vennero accolti da questo gruppo di donne e ripartirono senza compiere rastrellamenti e bruciare le case. Ricordi vaghi, sfarinati dal tempo trascorso, forse, in parte, non veri. Sembra, ma anche questa può essere una leggenda, che i partigiani protagonisti dell'agguato di Stramentizzo vennero puniti in quanto ritenuti responsabili di aver scatenato con la loro azione, la strage da parte delle SS. La vicenda è minuziosamente narrata nel libro intitolato “A nemico che fugge ponti d’oro” di Lorenzo Gardumi che ha la prefazione del professore Gustavo Corni; il titolo richiama un saggio proverbio greco: “Se non vogliamo brutte sorprese e se un nostro nemico rinuncia a voler fronteggiarci, meglio lasciarlo andare per la sua strada”, idea che, evidentemente, non  garbò  a quei partigiani che, a guerra finita, cercarono la vendetta.

Ci fu un’inchiesta: venne affidata dal Cln, il Comitato provinciale di Liberazione di Bolzano, a Herbert Kappler e il documento firmato “Kappler” e con il timbro del Cln, è conservato al Museo storico di Trento ( archivio della seconda guerra mondiale e della resistenza, prima parte, b.5, fascicolo 8 ). L’Obersturmbannführer racconta il sopralluogo condotto assieme a Marcello Caminati e non si sbilancia. Certo, i camerati avevano avuto la mano e il mitra pesante nella rappresaglia, ma l’attacco dei partigiani era stato inutile, soprattutto quegli spari sull’ambulanza... A Bolzano non si sapeva ancora che Kappler era il responsabile delle Fosse Ardeatine né della persecuzione degli ebrei.

In verità Kappler, già nell’autunno del Quarantatre aveva capito che per la Germania la guerra era perduta e, forse, aveva cominciato a preparare  un piano di fuga. Per il futuro nella clandestinità serviva molto denaro e così pensò agli ebrei. Ecco l’idea di una promessa, falsa, di libertà da barattare con cinquanta chili d’oro. Una tremenda illusione per gli ebrei del ghetto di Roma, ‪un inganno e una tragica estorsione ideata da Kappler e, forse con la complicità di quei personaggi che dirottarono in Svizzera una parte dell’oro della Banca d’Italia poi trasferito a Fortezza. Mezzo quintale d'oro da raccogliere  e consegnare in 36 ore. O l’oro, oppure la deportazione  di duecento capi famiglia. Sul finire del settembre del 1943, il colonnello nazista aveva convoca nel suo ufficio a Villa Wolkonsky, che si trova tra San Giovanni e Porta Maggiore divenuta dopo la guerra la residenza dell'ambasciatore britannico in Italia, il presidente della comunità israelitica di Roma e il presidente dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Intima loro di consegnare l'oro minacciando di deportare gli ebrei nei campi di concentramento.

In quell’anno non si sapeva di Auschwitz, né che i citati campi detti di lavoro fossero luoghi di sterminio e, forse, in pochi avevano intuito che il nazismo cercava di sopprimere la “razza inferiore” uccidendo il maggior numero possibile di ebrei. Forse non si era capito che i nazisti cercavano di cancellare nelle vittime anche la dignità umana. Del resto la maggioranza degli italiani aveva applaudito le leggi sulla razza, ma nulla si sapeva della “soluzione finale” e della volontà di sopprimere anche la memoria storica sull’esistenza di ebrei e bolscevichi.

L’ esistenza dei “campi di distruzione” non era conosciuta dalle gerarchie del fascismo rimate fedeli al Duce dopo il 25 Luglio e che, militarmente, avevano fatto quadrato con la Whermacht in quella che poi diventerà la Repubblica di Salò. Né Kappler aveva comunicato a Berlino il bieco baratto. Prima di molti altri aveva capito che la disastrosa, enorme sconfitta a Stalingrado del 31 gennaio poi lo sbarco angloamericano in Sicilia avevano cambiato il corso della guerra. E bisognava cominciare a pensare a mettersi in salvo o meglio, procurare quel danaro necessario ad una sopravvivenza al Reich. Che certamente sarebbe durato mille anni perché questo doveva essere il pensiero ricorrente. Ma la fede cominciava a vacillare e i suoi scudieri pensavano, segretamente, a salvarsi. Intanto bisognava procurarsi il denaro necessario. E nasconderlo bene.

Quando nelle sale cinematografiche si proiettavano gli spezzoni dell’ Istituto Luce che mostravano i roghi dei libri c’era l’applauso spontaneo ma pochi potevano capire che quelle fiamme che incenerivano bracciate di libri gettati nel fuoco da robusti militari in camicia bruna rappresentavano il Male Assoluto. E il citato “Luce” che significa Unione cinematografica educativa creata nel 1924, era una realtà davvero importante quanto capillare. Certo, era lo strumento di propaganda del regime fascista, ma anche il più antico istituto per la diffusione cinematografica a scopo didattico. Scorrendo i filmati si attraversa la storia dell’Italia in camicia nera e si capisce come un popolo reduce dagli orrori della Grande Guerra dopo solo 20 anni si sia fatto trascinare in un altro massacro.  

Kappler era l’uomo gusto al posto giusto. Era stato l’ufficiale che il 20 settembre aveva prelevato il tesoro della Banca d’Italia,  quei 119.251 chili d'oro conservati in 626 cassette di lingotti e 543 sacche di monete che rappresentava il soldo degli italiani. Il 28 settembre il bottino prelevato a Roma era a Milano e dopo un debole braccio di ferro tra le autorità della nascente Repubblica sociale e i rappresentanti del Reich che ne pretendono la consegna, avviato verso il Brennero. Da ricordare che il 17 settembre Mussolini aveva proclamato da Monaco di Baviera dove era stato portato per ordine di Hitler, la costituzione del nuovo stato fasciata nato ufficialmente sei giorni più tardi; che la Germania aveva istituito la Operationszone Alpenvorland comprendente le provincie di Bolzano, Trento che aveva subito il primo devastante bombardamento aereo, quello della Portela del 2 settembre e Belluno sottratte al controllo della nascente Repubblica di Salò. In quella condizione fu facile trasferire, con la complicità di un gruppo di fidati camerati, una parte di bottino da Milano alla Svizzera. Forse Kappler pensò di accaparrarsi un tesoro personale. E convocò gli ebrei: cinquanta chili d'oro in cambio della falsa promessa di libertà. Un'illusione per gli ebrei romani, ‪un inganno e un'estorsione da parte dell’ufficiale nazista. Kappler sapeva che non avrebbero parlato: nel campo di Auschwitz a lui ben noto lo Zyklon B funzionava a dovere.

Con la costituzione della Zona operativa delle Prealpi, iniziò la deportazione degli ebrei facilitata dalla politica fascista che con le leggi razziali del Trentotto aveva preparato le liste della popolazione ebraica. Fu proprio in Alto Adige che si verificarono i primi arresti di ebrei e quindi la loro deportazione, e per la maggior parte transitavano per il Campo di transito di Bolzano. Fu colpita con la consueta, metodica ferocia la comunità di Merano. E nel 1945 proprio il Sudtirolo divenne l’accogliente via di transito di criminali di guerra come Josef Mengele e Adolf Eichmann.

L’oro ebreo viene raccolto in pochi giorni, come dimostrano le ricevute conservate nel Museo Ebraico di Roma e consegnato a Kappler. È inutile: il 16 ottobre del 1943, pochi giorni dopo il pagamento dell’ enorme somma che doveva garantire la libertà, 1.024 ebrei romani vennero deportati dai nazisti nel campo di sterminio di Auschwitz. L'oro era stato consegnato, la promessa non è stata rispettata ma c’è il tragico rastrellamento che coinvolge non solo i capi famiglia, ma tutta la popolazione del Ghetto di Roma, tra cui moltissime donne e bambini. La consegna dell'oro non è servita a niente. Il treno per la Polonia parte il 18 ottobre dalla stazione Tiburtina di Roma e Settimia Spizzichino è l'unica donna del Portico d'Ottavia ad essere tornata dall’ orrore di Auschwitz. La città di Roma le ha dedicato il cavalcavia Ostiense, che ora si chiama, per l'appunto, ponte Settimia Spizzichino.

Da ricordare, e questo lo ha scritto il giornalista Mauro Lando nella sua enciclopedia del Trentino, che Stramentizzo vene sommerso nel 1956 dalle acque dell’Avisio trattenuta dalla diga e la storia del borgo sommerso venne narrata sul giornale “l’Adige” del 25 giugno del 1956 da Aldo Gorfer. Mentre il quotidiano “La Notte” pubblicò una straordinaria fotografia, una pagina intera, di Giorgio Rossi. Mostra un contadino che in sella ad una bicicletta sulla quale sono agganciati alcuni attrezzi di lavoro, si allontana dal paese: l’acqua del futuro largo artificiale arriva quasi ai mozzi del velocipede.

(14, continua)

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