L’ombra del Simonino da Trento nelle radici dell’odio verso gli ebrei

L’ombra del Simonino da Trento nelle radici dell’odio verso gli ebrei

di Luigi Sardi

L’ombra del “martirio” del Simonino da Trento trucidato “dai perfidi giudei in odium Christi”, come si legge nel “Missale Romanum ex decreto sacrosantii Concilii Tridentini” stampato a Venezia nel 1711, si allungava sul finire dell’Ottocento in particolare in Austria, Germania, Polonia, Galizia, Russia, insomma in quasi tutti i paesi nel cuore dell’Europa – ma nel Regno d’ Italia non era mai accaduto – dove era radicato verso gli Ebrei un atavico fastidio che spesso diventava odio, ghettizzazione. Spesso violenze il più delle volte sanguinarie. Appunto quello del bimbo “martire” era un tema probabilmente conosciuto da Hitler e da quanti che come lui sprofondavano nell’antigiudaismo. Fenomeno particolarmente forte nell’ Austria dove nell’ avvicinarsi della Pasqua, cresceva il furore contro gli Ebrei sospettati di mescolare sangue di fanciulli cristiani al pane azzimo, cioè quel pane croccante, cotto senza lievito, sale, olio, che pur privo di particolare sapore trionfa nella tradizione della cucina ebraica.

Era un tema ricorrente ampiamente riportato a Trento sabato 7 aprile 1900 sulla prima pagina nella rubrica “Note Politiche” del quotidiano “La Voce Cattolica” diretto fino al primo settembre del 1905 da don Guido de Gentili quando con la frase “Andiam che la via lunga ne sospigne”, la direzione venne assunta da Alcide Degasperi. Che fece bene a citare Dante affrontando il mestiere di direttore di un quotidiano che, comunque lo si pigli, sempre si spalanca su un indecifrabile Purgatorio. Appunto il deputato Schneider aveva presentato un’ interpellanza alla Dieta dell’Austria inferiore nella quale “si eccitava il Governo, all’ avvicinarsi della Pasqua ebraica, ad esercitare una sufficiente vigilanza sugli Ebrei a tutela del fanciulli cristiani in vista della circostanza che nella confezione dei loro pani azzimi si è spesso adoperato sangue cristiano, come lo dimostrano gli assassinii rituali registrati dalla storia”.

Il giornale di don de Gentili non si scandalizzò per il contenuto dell’ interpellanza avendo ben presenta la storia del Simonino divenuto il simbolo dell’assassinio rituale, ma “perché i deputati dell’opposizione, e in particolare i socialisti, erano insorti protestando vivacemente e perché i giornali finanziati dagli Ebrei, [davano] pei primi fiato alle trombe, gridando allo scandalo inaudito, alla vergogna, al fenomeno della persecuzione contro gli Ebrei… fecero la voce grossa [dando spazio] agli oratori rabbini contro le meno degli antisemiti”. Con un barlume di prudenza, “La Voce” prende le distanze dal deputato austriaco con la frase: “Noi concediamo volentieri che l’interpellanza di Schneider sia stata non troppo opportuna e che il suo scopo, più che tendere realmente alla salvezza dei fanciulli cristiani nell’imminenza della prossima Pasqua giudaica, sia stato quello di schiacciare sotto il naso degli Ebrei la poco gradita questione dell’assassinio rituale”. Così il giornale cattolico facendosi portavoce dell’ interpellanza del deputato, non negava l’omicidio rituale solennemente celebrato appunto a Trento nella chiesa di San Pietro.

Nel 1900 Hitler aveva solo 11 anni; probabilmente conobbe quella vicenda perché in Austria, all’inizio del Novecento, la storia del Simonino era tema di profonda religiosità, ma anche fiero stendardo dell’antisemitismo. Da ricordare che la rappresentazione degli Ebrei come eterni nemici, era stata forgiata molti secoli prima da Martin Lutero nello scritto “Degli Ebrei e delle loro menzogne”. Con quello scritto, Lutero aveva abbozzato i tratti essenziali e i nazisti, nel loro tempo, non faticarono a completare il disegno. In una sorta di predicazione torrenziale prima l’agostiniano dello scisma poi Hitler si erano rivolti alla grande massa dei tedeschi risvegliando antiche ostilità. Scrisse Lutero: “…sono cani assetati del sangue di tutta la cristianità, e assassini di Cristiani per volontà accanita, e poiché hanno provato un immenso piacere nel farlo, spesso sono stati giustamente bruciati vivi [perché] accusati di aver avvelenato l’acqua e i pozzi, rapito i bambini che poi sono stati smembrati e tagliati a pezzi”.  

Anche il Gauleiter Julius Streicher il vecchio e fedele camerata di Hitler, aveva idee nazisticamente chiare sugli Ebrei quando nel 1933 raccontava a quelli della Gioventù hitleriana: “Ragazzi e ragazze! Guardate dietro di voi, poco oltre i dieci anni. Una Grande Guerra, una guerra mondiale, si era scatenata sui popoli della Terra e alla fine non è rimasto che un mucchio di macerie. Di questa orribile guerra un solo popolo era uscito vincitore, un popolo di cui il Cristo diceva che per padre avesse il Diavolo. Quel popolo aveva rovinato il popolo tedesco nel corpo e nell’anima”. 

Insomma la tragedia del Simonino affogato in una delle rogge che attraversavano la città, fu per Trento un punto di continuo, rancoroso scontro fra la stampa socialista e le pubblicazioni clericali, fra comizi tenuti nelle piazze e nelle birrerie e le prediche lette dai pulpiti delle chiese e negli oratori sempre affollati, dove l’ Ebreo veniva indicato come “perfido” e spesso associato con i principi della modernità che andavano contro ataviche tradizioni. In particolare a Trento c’era il quotidiano “Il Popolo” di Cesare Battisti e di Ernesta Bittanti che aveva cominciato a demolire il culto del bimbo martire. Inoltre a vivacizzare la redazione, era arrivato, sia pure per un breve ma molto intenso periodo, Benito Mussolini che non avrebbe mai scritto sugli Ebrei. Il condizionale è d’obbligo mancando nella raccolta del quotidiano diversi numeri e molte pagine vennero sforbiciate. Si scoprirà antisemita nel 1938; re Vittorio Emanuele lo asseconderà controfirmando le leggi sulla razza. Il re lo fece perché aveva paura del Duce temendo di vedere Casa Savoia spazzata via dal fascismo perché Mussolini nella sua sfrenata voglia di potere pensava di disfarsi delle teste coronate.

Per capire Mussolini e il suo disprezzo verso il re, basta leggere una pagina del diario di Galeazzo Ciano, quella datata 30 gennaio 1939. “Il Duce è tutto preso dalla preparazione della parata della Milizia. Passa delle intere mezz’ore alla finestra del suo ufficio, nascosto dietro la tendina azzurra ad occhieggiare il movimento dei reparti… Ha istituito il bastone del capo banda, e personalmente insegna il movimento come deve essere fatto. Accusa spesso il re di aver sminuito il prestigio fisico del nostro esercito per armonizzarlo alla sua figura infelice”. E Vittorio Emanuele III che però non si era opposto al tragico “Patto d’ Acciaio” si limitava a dire a Ciano che li scrisse nel suo diario alla data del 20 marzo 1939: “I tedeschi sono mascalzoni e straccioni”. Questa era la politica dell’Italia dell’epoca.

Si scrisse che Hitler diventato il Führer, fece proprie le teorie dello Schneider sugli Ebrei e indicò Karl Lueger, il Sindaco di Vienna, come “il miglior sindaco che sia mai esistito” apprezzandolo in quanto aveva sempre sostenuto le politiche razziste. Sul primo cammino del Führer ci fu un altro personaggio, quel Göttfried Feder anche lui antisemita, economista, decisivo sulla concezione hitleriana dell’economia, anzi il teorico economico del Nsdap, il Deutsche Arbeitpartei, il partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Appunto Feder fu uno dei padri ideologici del nazismo e la prima apparizione pubblica di Hitler fu nel 1919 ad una conferenza dell’economista. Forse per caso o forse per emulazione, ostentava quei corti baffetti che hanno sedotto e impaurito, a seconda delle latitudini e delle convinzioni politiche, l’umanità.

Nei primi anni del Novecento, gli Ebrei erano considerati, come si legge nel libro “Weimar, la Germania dal 1918 al 1933” il professor Gustavo Corni già docente di storia contemporanea all’Università di Trento, studioso della storia tedesca e delle moderne dittature di massa, “particolarmente adatti a manipolare denaro e operare nel mondo della finanza in cui non si producevano merci, ma si decidevano attraverso astratte transazioni e trame” all’epoca definite oscure, “le fortune o le sfortune in Borsa, di un’impresa o addirittura di un’intera nazione”. Intanto l’Europa andava lentamente ma inesorabilmente verso la guerra, passata alla storia come Grande, che nei piani degli stati maggiori sarebbe stata breve, ovviamente vittoriosa, e mentre si forgiavano cannoni e si varavano navi da battaglia sempre più imponenti e, sicuramente, inaffondabili, che, invece, finirono a picco, andò sfumando.

Ma quasi alla vigilia del 1914 si erano dimenticate le cupe leggende attorno ai pani azzimi confezionati con il sangue dei bimbi cristiani quando a Parigi scoppiò il caso passato alla storia come “L’Affare Dreyfus”. Che scatenò nella Repubblica francese un incontrollabile furore contro gli ebrei. Era  l’estate del 1894 quando in una lettera indirizzata al colonnello prussiano Maximilian von Schwartzkoppen reduce della guerra franco germanica, addetto militare tedesco dell’ambasciata germanica a Parigi e intercettata da un agente del servizio segreto del controspionaggio, si scoprì che venivano elencati alcuni segreti concernenti la preparazione militare francese dell’epoca. Soprattutto una notizia sul freno idraulico del cannone da 120 corto intorno al quale si manteneva il più rigoroso segreto. Si indagò, si passarono in rassegna i nomi di centinaia di ufficiali che potevano essere in possesso di quei segreti per arrivare ad un nominativo che sapeva di tedesco e per giunta ebreo: Dreyfus, Alfredo, un capitano d’artiglieria in prova presso lo Stato Maggiore, subito chiamato Giuda Iscariota, arrestato, processato, condannato, degradato, relegato in catene all’Isola del Diavolo. La Francia si divise, l’Europa venne travolta, tutti gli eserciti cominciarono a cercare spie soprattutto fra i militari Ebrei e in un gigantesco conflitto giudiziario, giornalistico, politico, culturale, la vicenda viaggiò dal 1894 al 1906 quando si arrivò ad uno sbocco. Vennero a galla  “seri dubbi” sulla colpevolezza dell'ufficiale; investigazioni successive dimostrarono che in effetti von Schwartzkoppen ricevette le informazioni non da Dreyfus bensì dall'ufficiale francese Ferdinand Walsin Esterhazy e Schwartzkoppen confermò l'innocenza di Dreyfus nelle sue memorie, pubblicate postume nel 1930. Dreyfus venne riabilitato ma l’odio seminato in Francia per 12 anni non venne cancellato.

Dopo i fiumi di sangue passati sotto i ponti della storia della Grande Guerra, si capì che quelle notizie legate alle teorie dello spionaggio militare, non erano né molto compromettenti e neppure tanto segrete. Si accertò, senza clamori, che gli Ebrei, come del resto i socialisti pacifisti, combatterono, soffrirono, morirono ciascuno per la propria bandiera ricevendo decorazioni, encomi solenni, promozioni. In Italia, il professor Pierluigi Briganti prezioso esponente di quel Comitato che a Carzano in Valsugana tiene viva la memoria della famosa battaglia del settembre del 1917, ha documentato nella conferenza tenuta a Bologna il 9 dicembre 2010 nel Centro di studi storico militari che aveva sede nel prestigioso Circolo Ufficiali Esercito, il contributo militare degli Ebrei italiani nella Grande Guerra. Ecco re Vittorio Emanuele decorare con Medaglia d’Oro due Ebrei: il tenente Umberto Beer di Ancona decorato 4 volte di medaglia d'Argento e la medaglia e Dario Vitali, unico dei cinque Ebrei insigniti di questa ricompensa a sopravvivere al conflitto.

(3. Continua)

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