Prigionieri della solitudine

di Alberto Faustini

Non arriva la chiamata delle 8. Forse chiamerà dopo, anche se di solito è impaziente. Silenzio. Distanza. Assenza. Allora ci si vede, penso. Ma ai tempi del covid - se sei ricoverato - non ci si può vedere. Non può che essere così, ma la violenza dell’assenza è uno schiaffo alle belle abitudini, ad anni di scontri o di tenerezza, alla consuetudine di uno sguardo, di una carezza, di una impercettibile sintonia. Noi italiani siamo così: fisici, concreti. Fatti di carne che si confonde con altra carne nelle mille modalità dell’amore, dell’affetto, della dimestichezza, della complicità. I minuti passano. Ancora non chiama. Forse ha dimenticato il numero. Forse lì dov’è il tempo si misura in modo diverso. Forse chi l’accudisce e cura con rara premura mentre è in un acquario nel quale noi non possiamo nemmeno pensare d’entrare, non sa che questa è l’ora del “contatto”. Non sa che nella vita d’ogni famiglia ci sono piccoli gesti quotidiani che nel loro infinito ripetersi sono un cuscino di certezze: morbido come certi pensieri; accogliente come certi momenti; speciale come certi ricordi. 

Ma si ricorderà di me, di noi, degli amici, di ciò che faceva e di ciò che programmava di fare? C’è il covid. Lo saprà? Lo ricorderà? Forse preferirebbe comunque rischiare di morire rivedendo i nostri volti anziché rischiare di sprofondare in questo vulcano di silenzio e di lontananza, in questo cratere senza appigli, nel quale ogni movimento spinge verso il basso. Vien voglia d’organizzare un’evasione o un’irruzione. Perché siamo tutti pronti a calpestare regole e buonsenso pur di vedere chi ci sta a cuore almeno per un istante, pur di far sentire ai nostri cari che ci siamo, pur di dare un senso a questi giorni congelati dalla paura e dal distacco.

La lontananza ora è la miglior forma di protezione. Non solo in un ospedale o in una casa di riposo. È l’unico vaccino che funziona: la distanza infatti impedisce alla brutta bestia d’insinuarsi nella pelle consumata dalla vita. Ma come si vive l’assenza nel mondo rovesciato e stanco, adagiati in letti anonimi? Come si sta senza una voce o senza uno sguardo? Come ci si protegge, emotivamente, dall’isolamento forzato? 

Sono passate le 9. Telefono muto. Se chiama, non lo fa mai a “tarda ora”. Ama la “fissa” delle prime luci del mattino: quella dei commenti veloci, delle parole feroci, delle idee rapaci. Come se poi iniziasse un braccio di ferro col tempo che resta, uno spazio che lascia respiro solo al mattino, quando non tutto il mondo ancora s’è svegliato, quando si fanno programmi, quando non si può immaginare che anche oggi non si vedrà nessuno. Perché non si può. Perché c’è il covid. I cent’anni di solitudine di Garcia Marquez sono in questa nuova prigionia, dietro le sbarre del silenzio. Un coltello nelle emozioni di chi resta solo, sentendosi abbandonato, una lama nell’anima di chi non può avvicinarsi, incapace di dare altre forme alla vicinanza. La prova più difficile per tutti, operatori inclusi, in questo tempo sospeso.

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