L'umiltà di sapere di non sapere

L'umiltà di sapere di non sapere

di Giovanni Pascuzzi

«Io conosco un sacco di gente e nessuno è finito in terapia intensiva: per cui dov’era tutta questa gravità della pandemia»? Per aver pronunciato questa frase un noto cantante si è ritrovato esposto a dure critiche sui social e sui media. L’esternazione è stata un po’ avventata ma è frutto di un modo di ragionare che può caratterizzare tutti.

Le scienze cognitive definiscono «bias» un errore sistematico di giudizio per effetto del quale si tende a creare una propria realtà soggettiva. Spesso si producono errori di valutazione e mancanza di oggettività. 

I bias possono essere di diverso tipo. Uno è proprio quello in cui sembra essere inciampato il famoso cantante, ovvero: sovrastimare il valore della conoscenza e dell’esperienza personale (per molti versi è lo stesso errore in cui cadde, rimettendoci le penne, il personaggio dei Promessi Sposi Don Ferrante, per il quale il contagio da peste non esisteva perché non apparteneva a nessuno dei generi di cose che egli conosceva).

Un altro bias deriva dal modo con il quale valutiamo il passato. Quando due anni fa crollò il ponte Morandi, a Genova, furono in molti a dire che gli antichi romani costruivano ponti più resistenti. Perché consideravano solo i ponti che ancora sono in piedi e non le migliaia che sono crollati nel corso dei secoli e che, quindi, non sono giunti fino a noi (si pensi al famoso ponte di Avignone, sul Rodano, completato nel 1185 e più volte ricostruito e che oggi è in piedi solo per metà). Questo tipo di bias può comportare errori di valutazione gravi specie in ambito finanziario ed economico.

I bias citati hanno molto in comune con la cosiddetta «euristica della disponibilità» che consiste nel giudicare la frequenza di una classe o la probabilità di un evento in base alla facilità con la quale i casi sovvengono alla mente. Subito dopo l’11 settembre 2001 crollò verticalmente il numero di persone che viaggiava in aereo: troppo vivo il ricordo dell’attacco alle torri gemelli e la paura di incappare in un nuovo attentato terroristico. Ma se ci si pensa, non c’è stato giorno più sicuro per volare del 12 settembre 2001: in quel giorno l’allerta contro il terrorismo fu massima in tutti gli aeroporti del mondo. In ogni caso, dopo tre mesi il numero di viaggiatori in aereo tornò ai livelli soliti.

L’elenco degli errori di ragionamento è ben più lungo. Di essi si occupano psicologi ed economisti.
È significativo, però, che anche il mondo del diritto si è mostrato ben consapevole della loro esistenza.
Prima di emanare le leggi più importanti occorre fare una analisi di impatto della regolazione: ovvero uno studio che permetta di capire se quella legge avrà davvero gli effetti voluti. Una direttiva del governo del 2018 ha stabilito che quando si prefigura l’impatto che può avere una nuova legge si deve considerare anche il tipo di errori di cui stiamo parlando ovvero si deve tenere presente che: «Le persone ricorrono frequentemente a regole euristiche che consentono di semplificare i processi decisionali e di effettuare le proprie scelte non solo risparmiando tempo, ma anche riducendo le informazioni necessarie. Ciò, tuttavia, può determinare errori cognitivi e scelte che, in ultima analisi, riducono il benessere».

Ci sono almeno due ragioni che consigliano di tenere conto di come concretamente funziona la nostra mente quando si emana una legge.
Innanzitutto per proteggere le persone più esposte: pubblicità o altri mezzi di persuasione occulta a volte fanno leva proprio sui limiti cognitivi per orientare le scelte dei consumatori. Così una nuova legge, anche se con spirito paternalistico, può fare in modo da spingere le persone a fare la scelta più vantaggiosa (ad esempio: dare gli strumenti per capire davvero quale compagnia telefonica offra il servizio al prezzo più conveniente).

La seconda ragione è che i limiti cognitivi possono operare in modo da impedire ad una nuova legge di raggiungere gli obiettivi prefissati: di qui, appunto, l’esigenza di capire in anticipo se una certa norma innescherà davvero i comportamenti desiderati (imporre che sui pacchetti di sigarette ci sia scritto che fumare nuoce gravemente alla salute dissuade davvero dal fumare?).
Credere di conoscere spesso è solo un’illusione: la verità è che non conosciamo davvero molte delle cose che pensiamo di sapere e non conosciamo nemmeno cosa sarebbe davvero un bene per noi stessi. Diventare consapevoli di non sapere qualcosa richiede uno sforzo non molto inferiore a quello necessario ad impararla. E questo riguarda un po’ tutti: purtroppo anche gli stessi regolatori/legislatori che sempre più spesso rappresentano una sintesi perfetta tra incompetenza e supponenza.
In un mondo sempre più complesso occorre armarsi di umiltà e riflettere molto prima di esprimere giudizi. In una parola: occorre ripartire dal «sapere di non sapere».

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