Quando Depero cantava il «Duce, Benvenuto, Benedetto»

di Luigi Sardi

Quando per Fortunato Depero il Duce era “il Benvenuto, il Benedetto”. Era il 1938, l’anno che in un’altalena di rancori, paura e voglia di dominare nell’Europa, si accentua il precipitarsi del Duce a fianco di Hitler verso la tragedia della guerra mondiale.

Un percorso tortuoso che comincia il 3 aprile con il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano ad annotare sul suo Diaro: “In Alto Adige continua una propaganda che noi non possiamo tollerare. Quei 210 mila tedeschi alzano troppo la testa e si parla persino di confine a Salorno oppure ad Ala. Ho consiglio il Duce di parlarne con il Führer. In Italia la corrente anti tedesca fomentata dai cattolici, dai massoni e dagli ebrei è, e diviene, sempre più forte. Se i tedeschi faranno gesti imprudenti in Alto Adige, l’Asse (l’ accordo militare fra Roma, Berlino e poi Tokio, il “Roberto” nella voce popolare, nda) può saltare da un momento all’altro”.

L’ Anschluss era stato per Mussolini uno scacco durissimo che lo aveva spaventato. Certo, aveva mosso qualche divisione verso il nord, ma le truppe si erano fermate ad Ala quando si era reso conto che “l’anelito profondo del popolo austriaco era per l’annessione con la Germania” e il 24 aprile – questo lo scrive Renzo De Felice, il più importante studioso della storia del fascismo – “già irritatissimo contro i tedeschi per la questione dell’Alto Adige, si era sfogato minacciando di coalizzare il mondo e mettere a terra la Germania per almeno due secoli”. Ma era già stata programmata dal 3 al 9 di maggio, la visita in Italia di Hitler e così le “brucianti” frasi del Duce rimasero nel segreto dei diari e dei verbali. Però bisognava dare un “imperioso segnale” per italianizzare, meglio fascistizzare, l’Alto Adige e vivacizzare il Trentino dove il fascio era accettato senza entusiasmo, soprattutto da quanti erano nati ai tempi di Francesco Giuseppe.

Così il Duce decise, era il novembre del 1938, di “far rinascere gli spiriti nel clima fascista” convocando a Roma gli artisti altoatesini e trentini. A Trento il giornale “Il Brennero” diede la notizia con il titolo “Il Duce riceve gli ottocento artisti altoatesini e trentini - La promessa del condottiero: Mussolini annuncia la sua prossima visita a Bolzano - Ardenti manifestazioni di entusiasmo”.

Ogni capoverso è un’ osanna al Duce, un ripetere dell’acclamazione “Du-ce Du-ce”, un raccontare “i fieri canti della Rivoluzione e della montagna”, la minuziosa narrazione del rito del saluto al Duce “mentre scattavano i Moschettieri i cui pugnali tesi verso l’alto balenavano nei riflessi argentei, mentre prorompeva nuovamente, altissima, l’invocazione e le braccia si protendevano nel saluto romano”. Nell’articolo non c’è traccia dei nomi degli artisti, né delle loro arti; c’ è solo il grande frastuono dettato dall’entusiasmo di quella cerimonia a Palazzo Venezia. Dove ci sono solo uomini in quel momento definito dal giornale “maschio e virile”.

Quasi mai nelle pagine del “Quotidiano Fascista Tridentino” si nomina la donna. Eppure fra il 1921 e 1924, il primo fascismo, quello sansepolcrista, aveva rivendicato alle donne l’elettorato politico e amministrativo attivo e passivo. Del resto durante la Grande Guerra il ruolo della donna era enormemente cresciuto con il lavoro femminile nelle fabbriche di armi, esplosivi e nei campi dove, con cinque milioni di uomini richiamati, mancava la manodopera maschile.

Donne, e molte erano ancora bambine, impegnate sul fronte del lavoro; ottomila crocerossine nella bolgia degli ospedali da campo, tanto per citare gli esempi più evidenti. Ma poi, in molti, a guerra finita, era tornata la convinzione dell’inferiorità della donna e si era cominciato a giudicare negativamente il ruolo che avevano avuto nel fronte interno fra il 1916 e la primavera del 1919. Gli uomini avevano deciso di riprendere il loro posto, un po’ per l’intervento della Chiesa che non vedeva di buon occhio l’emancipazione femminile mentre l’idea del voto alle donne si faceva sempre più cauta ed tramontò prima della “Marcia su Roma”.

Mussolini non fu mai sensibile alle istanze di tipo femminista, neppure quando era socialista, né quando a Trento era giornalista nel quotidiano “Il Popolo” dove Ernesta Bittanti, la moglie di Cesare Battisti pubblicava i primi articoli per spronare la donna ad interessarsi alla politica, alla vita della città e prepararsi a chiedere il voto. Neppure nell’immediato dopoguerra quando i Fasci di combattimento si fecero portavoce del voto alle donne, affermava che “era fatta per obbedire e non poteva avere un peso nella vita politica”. Il primo giugno del 1923 a Padova, al congresso femminile delle Tre Venezie, il suo intervento si imperniò quasi completamente sui temi di politica generale, salvo un breve passaggio dedicato al voto alle donne in quell’epoca indicato come “spose e madri e sorelle”. Si legge nelle cronache di quel discorso: “Che cosa importa il voto? Lo avrete. Ma anche in tempi in cui le donne non votavano e non desideravano di votare, la donna ebbe sempre un’influenza preponderante nel determinare i destini delle società umane”.

Ma nel 1938, dunque 15 anni dopo quel “lo avrete” scandito a Padova, nell’ inaugurazione a Roma della mostra sulle colonie estive e l’ assistenza all’infanzia, il ruolo delle donne “italiane e fasciste era [quello] di essere le custode dei focolari e le madri delle generazioni dei soldati necessarie per difendere l’Impero… le donne italiane hanno dato prove infinite del loro coraggio, della loro abnegazione quando hanno dato gli anelli [le fedi nunziali] alla Patria”.
Da ricordare che la giornata dell’ Oro alla Patria fu una manifestazione a carattere nazionale avvenuta il 18 dicembre del 1935 durante la quale gli italiani furono chiamati a donare oggetti d’oro. L’Italia aveva aggredito l’Etiopia; a Ginevra la Società delle Nazioni aveva condannato l’attacco italiano istituendo le sanzioni, divenute subito le “inique sanzioni” entrate in vigore il 18 novembre. Che non furono efficaci. in quanto molti paesi non facevano parte della citata società e perché gli affari sono sempre affari. Le sanzioni vietavano l’esportazione di prodotti italiani e proibivano all’Italia di importare materiali per uso militare, ma non riguardavano il petrolio e il carbone indispensabili per la sopravvivenza dell’Italia. I governi di Gran Bretagna e Francia argomentarono che la mancata fornitura di petrolio all’Italia poteva essere aggirata ottenendo rifornimenti dagli Stati Uniti e dalla Germania. E gli Stati Uniti, pur condannando l’attacco italiano, ritenevano inappropriato che le sanzioni fossero state votate da nazioni con imperi coloniali come Francia, Inghilterra e Belgio.

Il fascismo organizzò la campagna “Oro alla Patria” e il 18 dicembre, un mese dopo il voto della Società delle Nazioni, fu proclamata la “Giornata della fede”, giorno in cui gli italiani diedero vita ad una grande mobilitazione per donare le proprie fedi nunziali d’oro a sostegno delle enormi spese militari. La cerimonia principale si tenne all’Altare della Patria e la prima donare l’ anello fu la regina Elena, la moglie di Vittorio Emanuele III. Poi fu la volta di Rachele Mussolini, la moglie del Duce seguita da un corteo di popolane romane. Nelle sua memorie la moglie del Duce narrò di aver donato mezzo chilo d’oro e due quintali e mezzo d’argento, frutto dei doni ricevuti dal marito. Nella sola Roma furono raccolti più di 250.000 anelli, 180.000 a Milano. E quella fu la più grande manifestazione dominata dalle donne.
Che compaiono poche volte sulle pagine de “Il Brennero”. Invece il giornale in data 21 maggio 1940 dedica una intera pagina con addirittura quattro fotografie a Fortunato Depero e alla monumentale autobiografia pubblicata dall’ artista all’ apice della sua carriera. Un volume di ottima qualità tipografica – del resto venne stampato dalla Temi di Egidio Bacchi con il prevalente uso di carta patinata intercalata a carta pesante, vasto apparato iconografico e superbe riproduzioni a colori. Appunto “superbo” è l’aggettivo che accompagna ogni momento dell’arte di Depero che nell’autunno del 1959 compariva, di tanto in tanto, nella redazione trentina del giornale “Alto Adige” per raccontare a Piero Agostini e Gian Pacher le meraviglie della sua arte, per esempio del “Libro imbullonato” “fatto con un nuovo materiale perfettamente autarchico della ditta Bossi di Torino”, le sue avventure con la ditta Campari, gli incontri con Filippo Tommaso Marinetti, con il senatore guido Larcher dei Legionari Trentini, del lavoro per creare la grande vetrata dell’ Ufficio delle Poste di Trento oggi edificio in totale disordine nel cuore della città.

Adulò Mussolini con frasi come “in prima linea il Duce, fonte suprema di italianità, di ardimenti, ispiratore di ogni alta meta” e ancora “simultaneamente è Capo energico militare e padre sensibile ad ogni tenerezza umana. E’ il Benvenuto, il Benedetto forgiatore della Nuova Italia. La sua figura complessa di condottiero e fascinatore costruttivo rivela un organicità di talenti, di intuito, di muscoli, di volontà veramente granitica”.

Era il 28 febbraio del 1943 e anche Mussolini cominciava a capire che il fascismo aveva i giorni contati quando Depero, convinto della vittoria dell’Asse, dava alle stampe 1000 esemplari – 500 per il Duce, 500 per il Führer – del libro intitolato “A Passo Romano”, bellissimo nell’impaginazione, nei disegni, nella grafica, del resto l’editore era la Temi (Tipografia editrice mutilati e invalidi di Egidio Bacchi), dove nelle prime righe spicca la frase “Uno due – gran gran. Passo energico, ritmato, come se l’acciottolato fosse composto da crani nemici, come se ad ogni passo si dovesse schiacciare con il piede sinistro la testa di un inglese e con quello destro la testa di un bolscevico”. Sperticati gli elogi al Duce, a Hitler e “all’ Eccellenza Italo Foschi dinamico e paterno interprete dei Comandamenti del Duce” che, federale di Trento, aveva patrocinato il lavoro del “pittore-poeta-futurista-artista” ma non lo aveva pagato. Né lo pagò Mussolini, né Hitler che ovviamente non vide quel libro.

(8. Continua)

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