Un "ultimo giorno" virtuale e triste

Un "ultimo giorno" virtuale e triste

di Eliana Agata Marchese

Ultimo giorno. Si chiude un ciclo: la scuola va a stagioni. È da quando avevo sei anni che assisto all’euforia di metà giugno. Le uova e la farina che non si dovrebbero portare, ma che gli studenti lanciano lo stesso. I gavettoni gelati. I palloncini liberati in aria quando mia figlia ha finito la quinta elementare. Soprattutto, nei ragazzi, la gioia incontenibile, di cui una volta ero parte. 

Poi, negli anni, sono passata a guardare le loro schiene, vederli sciamare fuori. Rimanere un passo indietro con un filo di malinconia e magari tornare dentro a impacchettare gli ultimi temi. Quest’anno - l’anno del Covid, della paura e della clausura - nemmeno l’ultimo giorno si è salvato. E noi, del ciclo che dovrebbe chiudersi, raccogliamo invece le macerie.

All’ultimo collegamento i ragazzi ci sono tutti, incluso chi è rimasto a finire l’anno all’estero. E tutti sono sfiniti: «La didattica a distanza va bene solo per le emergenze - dicono - adesso non ne possiamo più». Guardiamo all’anno prossimo, allora. Si rianimano. «Prof, si ricorda che ci ha promesso di venire un giorno con le cuffie, come la vediamo in video, vero?». Certo, ragazzi. Voi però ricordatevi il pesce rosso. Ad inizio quarantena poteva uscire solo chi aveva il cane. Noi porteremo a spasso un pesciolino. E andremo in gita, l’anno prossimo. Ci troveremo per la cena di fine anno. Recupereremo tutto quello che è finito in pezzi, tutti i cocci di questo ciclo che si consuma senza finire. Magari penseremo a come è andato male il 2020; ma potremo relegarlo ad un sospiro di sollievo.

Caterina si è chiusa in camera. Per la sua festa virtuale ha voluto un calice di succo di ciliegia e nessuno di noi vicino. «È un momento di classe» ha detto facendo scattare la serratura. Ma la classe non c’era. Era sfilacciata al di là dello schermo. Anche noi, a scuola, abbiamo organizzato un brindisi da remoto. Diversi colleghi vanno in pensione: alziamo i bicchieri all’anno che verrà. Si è affacciato anche Luciano a vedere questo strano rito fatto di un calice solitario, collage di faccine sul monitor e audio a scatti. Anche per mio figlio l’anno è terminato in sordina: niente recite buffe, niente applausi commossi, niente abbracci alle maestre. Pensavo non avesse capito bene. Ma negli ultimi giorni ha voluto a tutti i costi indossare la maglietta che aveva dipinto per lo spettacolo dell’anno scorso, ormai tristemente piccola. Silvia conclude la quarta elementare: anche per lei saluti virtuali. Ha riso e pianto senza soluzione di continuità. Erano lontani gli amici, ma ha abbracciato il fratellino. Virtuali saranno le pagelle: niente consegna dei documenti di valutazione. Anche questi sono diventati una schermata online. A scuola non è possibile andarci, se non a recuperare qualche libro in turni stabiliti, con guanti e mascherina. Nel silenzio. E pensare al rumore che c’è nei corridoi ogni mattina, all’odore che c’è in classe quando chiedo di aprire le finestre.

Mai avrei immaginato che potesse mancarmi. Eppure la scuola vive di questo: la presenza; l’odore, anche quando ci dà fastidio; il rumore che noi insegnanti cerchiamo di controllare. Ma che lì rimane, sempre troppo forte, perché i giovani sono intrinsecamente portati a risuonare. Anche il rito dell’ultimo giorno, per essere tale davvero, avrebbe bisogno del suono. In rete è tutto ovattato. C’è bisogno, invece, di sentire il brusio entrando in aula. C’è bisogno che gli studenti tornino a camminare dondolando sulle scale, a darsi gomitate, a suggerire di nascosto. Solo la presenza fa reale la scuola. Arrivederci a settembre, ragazzi: e che sia possibile di nuovo guardarci negli occhi.

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