I nomi delle cose e le ferite aperte

I nomi delle cose e le ferite aperte

di Paolo Ghezzi

La questione della toponomastica in Alto Adige/Südtirol, a noi a sud di Salorno appare folkloristica, quasi una disputa da topografi (e da tipografi), insomma ci suona stucchevole e deplorevole tutto il polverone che ogni volta si alza sui nomi dei luoghi: fastidiosamente revanscista a determinazione della maggioranza di lingua tedesca di voler cancellare i cartelli italiani, fastidiosamente vittimistico il grido di dolore della destra altoatesina.

Ci difetta però la memoria, dei tempi e dei luoghi. Ci dimentichiamo quanta violenza (culturale, etnica, politica ma non per questo meno odiosa) abbia significato l’italianizzazione forzata dei nomi delle cose imposta di pari passo con la fascistizzazione dell’Italia entro i suoi nuovi, più larghi confini. Un libro importante per capire i contrasti di oggi, la radicalizzazione ostile delle ali destre, sudtirolese e italiana, e per recuperare memoria è quello autobiografico di Claus Gatterer (intellettuale ben conosciuto anche in Trentino per il suo grande libro su Cesare Battisti): «Schöne Welt, böse Leut», Bel Paese brutta gente (sottotitolo, Infanzia in Sudtirolo).

Un classico del 1969, più volte ripubblicato. Una vita che si legge come un romanzo, la vita di un ragazzo tirolese (1924-1984), primo di 9 figli, nella splendida cornice dolomitica di Sexten, Sesto Pusteria, paese sul confine orientale che si è trovato all’ultima ora, nel 1919, ad essere fissato come ultimo lembo dell’estranea Italia dopo aver sperato fino all’ultimo di rimanere nella casa dei padri, l’Österreich.

Gatterer - storico e giornalista eccellente - ci ricorda a tinte vivissime il traumatico passaggio da una straordinaria suora-maestra di madrelingua tedesca, Blanka, che sapeva traghettare i figli dei contadini semianalfabeti dal dialetto stretto al tedesco e poi all’italiano (dischiudendo loro, senza polemiche, la ricchezza di due lingue) alla maestra di regime mandata a nazionalizzare i piccoli tedescofoni: un’insegnante che si lacca le unghie durante la lezione e si rifiuta di imparare i cognomi troppo difficili. Tschurtschenthaler, per esempio: non si prende neppure la briga («che nome ostrogoto, va’ a farti friggere») di scoprire che la pronuncia («ciurcentaler») alla fine è facile anche per uno di Venezia o di Catanzaro, e allora gli scolari (solo i figli dei poveri, però) rimangono un numero, una testa senza nome. Tu, del terzo banco. Ehi, testa rossa. Privati del diritto all’individualità, racconta Gatterer (che si salva grazie a un cognome pronunciabile e a un nome «latino», addirittura senza kappa, oltre al suo rendimento da primo della classe) i coetanei della classe inferiore scivoleranno nell’ignoranza irrimediabile, perderanno diritti e possibilità in balìa dei ricchi, dei miliziani e dei giudici che parlano e scrivono lingue a loro oscure.

E non pochi abbandoneranno la scuola prima di finire le elementari per tornare ad essere, solo e soltanto, figli di contadini, giovanissima manodopera a bassissimo costo. Un futuro segnato. L’imposizione della Befana fascista (peraltro avara: calze troppo grosse, guanti troppo fini, illeggibili libracci di regime) al posto del Christkind, il gesùbambino della loro tradizione; la festa della vittoria (degli altri) che arriva il 4 novembre a irridere il 2 novembre dei morti e dei caduti dall’altra parte, dalla parte degli sconfitti; perfino il nuovo calendario dell’E.F., era fascista, obbligatorio nei temi d’italiano, una insopportabile rifondazione del tempo: ma Mussolini - disse a Claus la mamma - è un cattolico anche lui, l’ho visto in una foto con il papa (Chiesa e fascismo avevano appena firmato i patti lateranensi del febbraio 1929), vedrai che puoi lasciare l’anno dell’era cristiana (ottobre 1930) senza quell’E.F. Conseguenza: data «anno VIII E.F.» aggiunta in rosso dalla maestra dalle unghie rosse e voto 2 a un tema senza errori.

Un altro maestro riscrive la storia della prima guerra mondiale, e il piccolo Gatterer torna a casa chiedendo al papà «è vero che tagliavate le mani ai bambini italiani?» e ne riceve in cambio un manrovescio in faccia che lo fa barcollare, destinato a quel «Malefizhund» (cane malefico) del maestro fascista bugiardo: si capisce che è uno di quei piccoli grandi episodi di manipolazione delle coscienze in formazione, che non può non lasciare il segno profondo di una indigeribile ingiustizia, di una violenza arrogante.

I torti del passato dittatoriale non sono mai una giustificazione della prepotenza rovesciata nel presente, quando la maggioranza tedescofona ha il comando pressoché assoluto del potere democratico e si compra perfino i giornali della sparuta e scorata e frammentata minoranza italiana, ma la memoria aiuta a contestualizzare, a comprendere che le ferite storiche (tra occupanti romani e sudditi giudei duemila anni fa, tra occupanti israeliani e occupati palestinesi oggi; tra occupanti fascisti e sottomessi sudtirolesi fino a settant’anni fa) fanno una maledetta fatica a cicatrizzarsi: e tornano a sanguinare non appena la cattiva politica li riapre, magari soltanto toccando il nome di un pascolo, di una gola, di un ruscello.

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