La vita è bella (compatibilmente)

La vita è bella  (compatibilmente)

di Paolo Ghezzi

Dopo che Benigni è riuscito a intitolare «La vita è bella» perfino un film sulla Shoah, le lodi alla vita non hanno più tabù. Quanto più il mondo appare spigoloso e minaccioso, tanto più i saggi - controcorrente - inneggiano alla vita nonostante tutto.
Ora il catalogo delle lodi si è arricchito della canzone che a Sanremo si è piazzata seconda dopo «Occidentali’s Karma» di Gabbani: «Che sia benedetta», l’elogio della vita cantato da Fiorella Mannoia su testo di Amara e Salvatore Mineo.

Il fatto che la canzone abbia vinto il Premio Bardotti, riservato al miglior testo, merita attenzione se non altro perché Sergio Bardotti, mancato dieci anni fa, gran «paroliere» (parola caduta in disuso) di Dalla, Endrigo, New Trolls, Vanoni e felice traduttore dei grandi brasiliani, da Vinicius De Moraes a Chico Buarque de Hollanda, è stato un maestro di semplicità poetica e di leggerezza profonda.

E allora leggiamo il testo scritto per Mannoia: «In questa piccola parentesi infinita,/ quante volte ho chiesto scusa e quante no». E già qui la lode scricchiola: l’ossimoro «piccola parentesi infinita» è inutilmente algebrico, equilibristico e difatti contiene tutto e il contrario di tutto (le scuse e le non scuse).

Quando poi si arriva a «Quante volte ho rovesciato la clessidra», la canzone scivola oleosa e barocca verso pratiche esoteriche (scacchisti esclusi) con l’aggravante di volere, chissà perché, spiegare la metafora (il che significa accopparla) con l’implacabile «didascalia»: «Questo tempo non è sabbia ma è la vita che passa, che passa».
Ah, ecco.

«Che sia benedetta» va poi in cerca di rime baciate come trifogli sugli scogli: «Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta/
Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta». Assurda e complessa! Due aggettivi più consoni alla situazione precongressuale del Pd che a una canzone esistenzialista.

Forse l’unica riga di Amara che prende un po’ d’ali è: «Siamo eterno, siamo passi, siamo storie», pur indebolita dalla coda che strizza l’occhio alla parte cattolica della platea sanremese: «E se è vero che c’è un Dio e non ci abbandona/ Che sia fatta adesso la sua volontà».

Il resto del testo è litania buonista senza guizzi creativi: «In questo traffico di sguardi senza mèta», «A chi ha perso tutto e riparte da zero/ perché niente finisce quando vivi davvero».

La signora Mannoia è appassionata e giudiziosa, una «combattente» (titolo del suo ultimo album) molto romana ma molto amata anche al nord. Non si vogliono discutere qui le sue doti vocali (c’è chi la trova ruvidamente vera, chi veramente monocorde) ma solo paragonare il suo testo «così così» a un inno alla vita di ben altra vibrazione.

Inevitabile che venga in mente una «combattente» cilena che a un certo punto ha smesso di combattere per smettere di soffrire, suicidandosi, cinquant’anni fa, a 49 anni: Violeta Parra. Ascoltando la sua «Grazie alla vita» dopo «Sia benedetta» si può cogliere la differenza tra una canzone d’autore e un onesto, volonteroso, appassionato pezzo confezione Sanremo.

Per cominciare c’è il nodo di fondo. La vita non è perfetta, come canta Mannoia, a meno che la frase non sia ironica. Tutto è grazia, diceva il curato di campagna di Bernanos, condannato a morte prematura per malattia. Ma la vita è maledetta per tanti, per troppi. E molte ore della vita di tutti sono tutt’altro che una benedizione.

Violeta non aveva più voglia di vivere eppure riesce a cantare «Grazie alla vita, che mi ha dato tanto...» per ciò che ha dato e non ha tolto.
«Grazie alla vita/ Che mi ha dato tanto,/ Mi ha dato due occhi/ Che quando li apro/ Chiaramente vedo/ Il nero e il bianco».
E ancora grazie alla vita per «Grilli e canarini/ Turbini martelli/ E lunghi pianti di cani/ E la voce tenera/ del mio amato».

E già questo spiazzamento (la voce dei cani prima di quella dell’amato) è poesia. Come il grazie per «il passo/ Dei miei piedi stanchi»: ecco il segnatempo, altro che clessidra.
«Gracias a la vida, que me ha dado tanto/
Me ha dado la risa y me ha dado el llanto».

Riso e pianto: la vita è imperfetta e radicalmente ambivalente. Ci regala «negro y blanco», luce e ombra, stupori e orrori, levità e peso, libertà e paura.

Ma se è vero, come canta l’«Orfeo negro» di Jobim-De Moraes (e i brasiliani, della vita, si intendono più di tutti) che tristeza não tem fin, felicidade sim» (la tristezza non ha fine, la felicità sì), è anche vero che senza frequenti gorghi di tristezza non conosceremmo neppure, a contrasto, la temporanea felicità.

E se dunque alla fine avesse ragione Mannoia: «che sia benedetta»?

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