Tracce N° 4 16 dicembre 2015

di Tracce

“Le nomadi identità moderne sono onde più che alberi con radici; le nutrono il vento e il mare, non solo la terra, e ogni giorno si rimette tutto in gioco, e nulla si custodisce se non nella trasformazione” Sono belle, espressive immagini di Ivan Nicoletto, monaco camaldolese, che interpretano il fluire della vita delle donne e degli uomini di oggi e il rapido mutamento che lo accompagna. Ci scopriamo, infatti, parte di un enorme travaglio creativo che chiede a ciascuno una maggior consapevolezza e una più acuta sensibilità nell’interpretare quei fenomeni del nostro tempo di cui siamo sia protagonisti che spettatori. È come se sentissimo occorra urgente, una nuova “spiritualità”, parola difficile ed evocativa, traducibile però, nelle più usuali “vigilanza” e “apertura”. Edith Stein, la grande filosofa e mistica contemporanea, la spiegherebbe così: “non solo io sono, non solo vivo, ma sono consapevole del mio essere e del mio vivere. E tutto in un unico atto”. Spiritualità significa anche “risveglio”. Per Antony de Mello la maggior parte delle persone, pur non sapendolo, è addormentata: “sono nate dormendo, vivono dormendo, si sposano dormendo, allevano i figli dormendo, muoiono dormendo senza mai svegliarsi. Non arrivano mai a comprendere la bellezza e lo splendore di quella cosa che chiamiamo esistenza umana”. Per me la spiritualità è un sussulto dell’interiorità, non necessariamente ispirato da una religione, laico perciò, del tutto “umano”; un vento che attraversa l’anima e scombina l’ovvio, il ripetitivo, lo sclerotico, il già detto e il già fatto; uno sguardo protratto in avanti, indagatore, curioso; perfino un “gioco” che cospira a fecondare i desideri che affollano lo spirito dell’uomo e della donna, così da accordare fiducia al loro “stare al mondo”. Per me la spiritualità somiglia ad un pozzo profondo, ad una soglia di casa, ad un cantiere aperto, dove sono recuperabili gli strumenti, gli attrezzi per l’opera da compiere. Un pozzo evoca il nostro cuore, il suo fondo, sconosciuto e oscuro. Oltre la superficie della nostra vita, del nostro parlare e agire, avvertiamo che c’è dell’altro, che non possediamo mai interamente noi stessi, che sfuggiamo di continuo alla chiarezza definitiva. Un pozzo-cuore che si inabissa in profondità estranee a noi stessi, in un mistero impenetrabile. Una soglia. La nostra nascita è stata solo il primo atto di irruzione nel flusso del tempo e delle relazioni, inaugurando una sequenza ininterrotta di soglie attraversate, di crune che si sono allargate, di presenze fatte di volti e cose, parole e pensieri, emozioni e immagini, che hanno arricchito e complicato l’esistenza. Un cantiere. Il farsi umano è un cantiere aperto senza progetto definitivo; apertura verso innumerevoli possibilità, secondo i limiti di accoglienza della nostra casa, che, d’altra parte, si costruisce sempre assieme ad altri, luogo non di possesso, ma di ospitalità. Siamo tessuti di seti e bisogni, attraversati da desiderio. Il nostro corpo è assetato di mondo, non può esistere al di fuori di un continuo relazionarsi, dissetarsi, coniugarsi con il mondo con ciò che spazia oltre. Non bastiamo mai a noi stessi, ma siamo aperture desideranti, in costante non-equilibrio, inconclusi. La spiritualità, come attitudine dell’anima, custodisce e coltiva questa dimensione vitale. Come suggerisce Emily Dickinson: “Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano. Se allevierò il dolore di una vita, o guarirò una pena, o aiuterò un pettirosso a rientrare nel nido, non avrò vissuto invano”

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