Gli animali al circo non sono uno spettacolo violento

Animali al circo: perché sì

di Matteo Kettmaier

Nonostante io sia solo uno psicologo di freschissima abilitazione vorrei esprimere la mia opinione sull'intervento della dottoressa Manuela Struffi pubblicato il 30 maggio sull'Adige. Avendo io effettuato il mio tirocinio di laurea magistrale svolgendo un lungo studio di cognizione animale, ho avuto modo di approfondire testi di John Alcock, Marian Dawkins, Telmo Pievani oltre che, naturalmente, dei «nostri» Giorgio Vallortigara e Valeria Sovrano, facendomi un'idea di cosa effettivamente sia «la natura» e riflettendo a fondo sul rapporto uomo-animale.

La dottoressa scrive (citando Ovidio) che «vi è accordo unanime tra ricercatori, educatori, assistenti sociali e psicologi nel considerare ogni forma di violenza sugli animali tirocinio di crudeltà verso le persone», tale frase, se estrapolata dal contesto, è assolutamente condivisibile in quanto è risaputo che la violenza gratuita su un animale messa in atto da un minorenne è la manifestazione di un disagio profondo e di un'aggressività irrisolta che possono un giorno essere sfogati su un'altra persona.

Il mio dissenso emerge nel momento in cui si usa tale argomento per affermare che entrare in contatto con «la segregazione e l'esibizione innaturale di un animale» dia un'idea sbagliata del mondo animale ai ragazzi e riduca la loro empatia.

Gli spettatori del circo non assistono al processo di addestramento né ad alcuna violenza esplicita durante lo spettacolo. Le violenze sono dietro le quinte, quello che si vede al circo è uno spettacolo in cui alla natura animale viene data una forma e un ordine secondo criteri umani. Già questo farebbe venir meno il senso della protesta anti-circo a meno che questa non assuma il carattere di lavoro di sensibilizzazione: denunciamo la violenza subita dagli animali nei circhi in modo che i bambini sappiano.

Immagino quei (pochissimi) bambini che escono da uno spettacolo circense, più o meno divertiti, più o meno annoiati, e si vedono aggrediti da un gruppo di attivisti che li erudiscono sulle sofferenze degli elefanti e dei cavalli che hanno appena visto esibiti. Non è uno scenario tanto fantasioso, succede. Immagino la confusione e il senso di colpa del bambino. Questo fa bene alla sua salute mentale? Di sicuro lo renderà più predisposto a diventare a sua volta un attivista e qui arriviamo al nodo centrale della mia critica.

Secondo me è scorretto alla base il nesso «rapporto con l'animale/ empatia». L'empatia è la capacità di comprendere lo stato d'animo altrui, che l'altro esprime tramite l'espressione facciale e corporea, il linguaggio, i movimenti oculari e il modo in cui parla (prosodia). Nell'esperienza quotidiana, l'empatia fa risuonare dentro di noi i sentimenti dell'altro, capiamo il suo stato d'animo perché ne condividiamo la sensazione, pur mancandoci le sue motivazioni.
Essere empatici nei confronti degli animali può essere segno di grande nobiltà d'animo così come di mancanza di autentica empatia umana. L'empatia verso il non-umano, secondo me, merita una categoria ben distinta: la biofilia, concetto proposto alla metà degli anni ottanta.

Nei confronti dell'animale noi ci poniamo liberi dai vincoli sociali che determinano e sono determinati dalla nostra morale. L'animale non ci giudica, non ci risponde, il suo modo di esprimere sensazioni e bisogni ci è incomprensibile se non in quelle specie di cui l'uomo ha prepotentemente indirizzato l'evoluzione (il cane e il gatto). Il suo dolore ci è ignoto, l'orrore di un'esistenza pre-verbale di assoluta solitudine, paura, fame che si perpetua di generazione in generazione, sfugge alla nostra comprensione razionale ed emotiva. Noi umani possiamo intuire il dolore del cavallo frustato, i più sensibili tra noi lo sentiranno quasi sulla pelle ma l'esperienza completa di quel dolore ci è preclusa, il mondo che viviamo non è quello del cavallo.

Biofilia ed empatia sono due realtà distinte e l'una può andare a discapito dell'altra. L'epoca in cui viviamo, ad esempio, è scarsissimamente empatica ma estremamente biofila, pensiamo a come tra l'empatia nei confronti dei trentini delle valli e la biofilia nei confronti degli orsi vinca costantemente la seconda nel dibattito pubblico, con i primi tacciati di ignoranza e intolleranza anziché essere (empaticamente) compresi nella loro paura e nel loro fastidio. Appena vent'anni fa se dei conigli avessero profanato un luogo sacro di sepoltura ci si sarebbe rivolti a una ditta di derattizzazione e la cittadinanza avrebbe ricevuto delle scuse per l'inconveniente, che passassero settimane a studiare la questione per non ledere i conigli al massimo sarebbe stata una battuta di umorismo nero. In quel caso sono stati messi sullo stesso piano un sentimento puramente biofilo (i conigli sono bel lungi dal rischio di estinzione) e il lutto umano. Che lezione di empatia hanno ricevuto i bambini?

Dispiacersi per la sofferenza degli animali è facile, è un processo che va solo in una direzione, l'indifferenza dell'animale nei nostri confronti ci conforta perché sappiamo che non ci chiederà niente, che non può capirci né gli interessa farlo. La relazione con l'altro umano è tutt'altra cosa, un ping pong di sentimenti, sensazioni, parole spesso fraintese.

Concludendo, vorrei sottolineare la possibilità che videogiochi come GTA V, in cui si picchiano prostitute e uccidono poliziotti in alta definizione, abbiano maggiori effetti negativi sull'empatia degli orsi ballerini e vorrei ricordare che, a differenza del circo, sono capillarmente diffusi e apprezzati tra i ragazzi.

[Matteo Kettmaier è psicologo, dottore in neuroscienze]

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