Per una cultura del fuoripista [prima parte]

di Alessandro Beber

Quando la stagione colora di bianco, il variegato circo degli appassionati di sport invernali scioglie le briglie. Fino a pochi anni fa la scelta spaziava principalmente dallo sci di fondo al pattinaggio, con un'evidente sproporzione a favore dello sci alpino, mentre le attività cosiddette outdoor (scialpinismo, ciaspole, fuoripista, etc.) erano riservate ad una manciata di appassionati tendenzialmente dotati di un solido background alpinistico. Recentemente invece si è assistito ad un vero e proprio boom di queste ultime discipline, con migliaia di persone che hanno improvvisamente scoperto la bellezza del vivere la montagna invernale al di fuori dei percorsi battuti.

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Niente di male, anzi, si tratta di una tendenza con molteplici risvolti positivi, ad esempio quello di sensibilizzare le amministrazioni sulle potenzialità di nuove forme di turismo a basso impatto ambientale e a basso, per non dire nullo, costo d'investimento. Purtroppo però, rispetto ad altre realtà, qui da noi sembra non essere passato bene il messaggio che nel momento in cui si intraprende un'escursione in montagna sulla neve si abbandona uno spazio bonificato dai pericoli a nostro uso e consumo (come nel caso delle stazioni sciistiche) e si entra in quel “terreno d'avventura” che richiede autonome ed adeguate capacità di valutazione dei rischi potenziali.

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Dico questo senza voler offendere i tanti appassionati preparati e competenti, bensì per mettere in guardia tutti quelli che vanno per cime con lo stesso spirito con cui s'imbocca un percorso di jogging: la neve è infatti un elemento mutevole e di difficile interpretazione, soggetto ad un elevato numero di variabili che ne determinano consistenza e stabilità, tanto che spesso anche per chi la studia è davvero difficile capirci qualcosa. In più ogni nevicata, anche minima, apre un nuovo capitolo a seconda della coesione che si viene a creare con gli strati preesistenti. Semplificando al massimo, muoversi sulla neve è come camminare su una pila di bucce di frutta...le bucce possono essere di banana, pera, pesca, arancia e via dicendo, e a seconda delle varie combinazioni (arancia sopra pesca, mela sopra banana etc.) se messe in pendenza hanno una diversa tendenza allo scivolamento l'una sull'altra. Tornando all'elemento in questione, il problema della neve è che di solito è tutta bianca (quando non nevica sabbia del deserto...) e quindi i vari strati di prim'occhio sono meno distinguibili della frutta!  

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Per questo sarebbe auspicabile che tutti gli avventori dell'outdoor invernale si dotassero delle competenze minime per affrontare il terreno su cui si muovono, seguendo almeno un corso di nivologia ed effettuando qualche verifica (stratigrafie, test di scivolamento, etc.)  durante le proprie uscite. Si potrebbe poi parlare delle esercitazioni di autosoccorso in valanga, piuttosto che di banali accorgimenti come dotarsi di una radio in zone di scarsa ricezione telefonica, o del come scegliere l'attrezzatura adatta al tipo di escursione (tanto per fare un esempio, anche a chi va con le ciaspole spesso farebbero comodo un paio di ramponi nello zaino).

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L'invito è a copiare gli esempi virtuosi di altri paesi, dove una certa “cultura del fuoripista” è diffusa a tutti i livelli (vi è mai capitato di fare un giro in Svizzera e trovarvi in funivia con un'arzilla vecchietta ultrasettantenne dotata di Fat skis e tanto di ABS ??) e addirittura incentivata fin dagli ambiti scolastici, in maniera da ridurre gli incidenti e allo stesso tempo smontare il fatalismo che spesso si annida dietro l'imponderabilità di un elemento, la neve, di cui troppo spesso si ignorano le  basilari dinamiche di funzionamento.

Continua...

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