Baby boss di 15 anni uccide due affiliati

Erano considerati troppo autonomi, non «rispettosi» della strategia del potente clan di zona. E così sono stati puniti, uccisi, per far capire anche agli altri affiliati che le regole andavano rispettate.

E a farlo è stato un ragazzino di 15 anni: un padre boss, una mamma anche lei boss, dopo che il marito è finito in carcere. E poi lui, rampollo del clan, che il 20 giugno 2016 uccise in un appartamento di Melito (Napoli) Alessandro Laperuta, 28 anni, e il marocchino trentenne Mohamed Nouvo. Un duplice omicidio che gli è costato il carcere.

Il caso, un anno fa, fu seguito dal capitano Antonio De Lise, a capo dei carabinieri della compagnia di Giugliano. Quando i militari arrivarono nell’appartamento, la scena fu agghiacciante: c’era sangue dappertutto, sangue che scorreva anche dal balcone del quarto piano fino ad arrivare giù nel viale di accesso del condominio.

Furono sparati tanti colpi, a distanza ravvicinata, che provocarono ferite devastanti. Una vera e propria esecuzione, all’ora di pranzo. Una sparatoria nel corso della quale rimase ferito anche il baby boss, fu raggiunto da un colpo al petto.

Arrivò all’ospedale di Giugliano, che dista poco più di cinque chilometri dal luogo dell’agguato forse con il suo stesso scooter.

Le indagini dei carabinieri di Giugliano, diretti da De Lise, subito si indirizzarono sulla pista di camorra e sul clan dei cosiddetti «scissionisti» che all’inizio degli anni 2000 si staccarono dal clan Di Lauro per il controllo delle piazze di spaccio. Che il 15enne fosse consapevole della «forza» del suo cognome, a Melito era chiaro a tutti. Soprattutto perché lui non faceva altro che ricordarlo. Entrava in un bar e pretendeva che gli pagassero il caffè perché lui era figlio del boss. E poi ancora obbligava gli altri a pagargli il parcheggio o anche cose banali pur di sottolineare il suo ruolo in paese.

E guai se qualcuno non rispettava le sue richieste o anche se solo lo guardava in strada con insistenza: scattavano liti, risse e punizioni. Era spesso accompagnato da due persone, il baby boss, e faceva di tutto per dimostrare che era pronto a scalare i vertici del clan. Voleva fare il capo ma era pur sempre un ragazzino di 15 anni e così spesso attirava su di sé attenzioni che un vero capoclan avrebbe, invece, evitato.

Una punizione, quella riservata ai due affiliati, che al baby boss è costata cara: il carcere con l’accusa di omicidio aggravato da finalità mafiose e di detenzione e porto illegale di armi da guerra.

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