Sono passati venti giorni dal femminicidio di Nago Manfrini, in cella, continua a non ricordare

di Nicola Guarnieri

Sono passati venti giorni dal terribile delitto del «Sesto Grado», quello che è stato registrato come l’ennesimo femminicidio, una relazione finita nel sangue dopo le botte mortali ad una donna. In carcere, accusato di omicidio volontario aggravato, c’è Marco Manfrini, 50 anni, roveretano, che per la procura ha massacrato la moglie Eleonora Perraro durante un litigio brutalizzato dai fumi dell’alcol. L’uomo, però, non ricorda nulla di quella maledetta sera passata nel locale di Nago dopo una giornata che, al contrario, sembrava perfetta, di una coppia innamorata con tanta voglia di divertirsi.

In attesa dei risultati finali dell’autopsia (arriveranno tra poco più di un mese), Manfrini è rinchiuso nella casa circondariale di Spini di Gardolo sottoposto a custodia cautelare. All’interrogatorio di garanzia non ha risposto ma non ha nemmeno fornito elementi utili al suo avvocato difensore Elena Cainelli. Di quella sera e di quella notte non ricorda nulla, solo qualche sprazzo insignificante ai fini dell’indagine ma prima ancora della ricostruzione dei fatti. «È completamente annebbiato anche dopo diversi giorni», si limita a dire il legale. Che, comunque, adesso ha presentato ricorso al tribunale del riesame. Non certo per sperare di far uscire di cella il suo assistito ma per giocare a carte scoperte. Il ricorso, infatti, consente di vedere cosa ha in mano la procura, le prove e gli indizi raccolti, le testimonianze. Ed è fondamentale per avere un quadro più completo di quanto accaduto.

«È necessario capire prima di muoversi. - spiega l’avvocato Cainelli - Ho depositato istanza di riesame proprio per conoscere gli altri elementi di indagine. Per il resto, da parte di Marco Manfrini, c’è infatti solo nebbia. A sprazzi si ricorda ma non è nulla di utile. Appena avrò in mano gli elementi mi consulterò con uno psichiatra e potrò definire la strategia difensiva».

Sulla reazione del presunto femminicida, invece, non si muove foglia. «Non dà grandi soddisfazioni. È frastornato. La disperazione ce n’è ma non si sa cosa possa accadere».
Tanto più che Manfrini ancora non sa capacitarsi dell’accaduto. I ricordi di quella tragica notte di inizio settembre, infatti, non sono ancora arrivati. Certo, è ben conscio di essersi svegliato nel giardino del «Sesto Grado» con la moglie morta accanto ma più in là non sa arrivare.

In attesa del riesame, l’unico pronunciamento ufficiale al momento rimane quello del giudice per le indagini preliminari Monica Izzo. Per la quale ci sono gli estremi per tenere Manfrini in cella. Perché ci sono sia gravi e concordanti indizi di colpevolezza, sufficienti in questa fase per privare l’indagato della libertà, sia un pericolo di fuga che impediscono di prendere in considerazione misure cautelari meno afflittive, come i domiciliari. Marco Manfrini, insomma, resta in cella a meditare su quel maledetto mercoledì. Ammesso che ci riesca. Altrimenti ci penserà la perizia psichiatrica che sarà affidata una volta che il quadro accusatorio sarà nelle mani della difesa. In totale assenza di testimoni e ricordi, d’altro canto, è il solo tentativo utile per penetrare il muro psicologico alzato dal presunto femminicida.

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