Oggi chiude per sempre il centro migranti di Marco

di Tommaso Gasperotti

Le foto staccate dal muro. Le scarpiere semivuote. Le valigie e i borsoni aperti sul letto. Il campo profughi di Marco domani chiuderà. E gli 87 richiedenti asilo rimasti verranno trasferiti alla residenza Fersina di Trento, chiudendo di fatto una pagina di storia della città.
Tra loro Gnassi, 25 anni, e Tayirou Rachid, 23, arrivati a Marco più di due anni fa. Avevano lasciato il Togo assieme, sfidando deserti, la Libia e poi il mar Mediterraneo. E sempre assieme ora dovranno lasciare quella che era diventata la loro casa.



«Mi ero abituato qui e vorrei rimanerci: Rovereto mi piace», racconta Gnassi, lo sguardo che si perde verso le rocce dei Lavini, ieri sferzate da un vento freddo. Al momento svolge un tirocinio alla casa di cura Solatrix. Ed il suo sogno è quello di lavorare con gli anziani. Il trasferimento alla residenza Fersina? «Un salto nel vuoto. Non vorremmo andarcene da Marco, ma dobbiamo: è una decisione presa dall’alto». Accanto a lui l’amico e compagno di mille odissee: «Sto cercando lavoro qui, ma non è affatto semplice», spiega Rachid in un italiano perfetto. Entrambi, dopo il rigetto della loro richiesta d’asilo da parte della commissione (con l’entrata in vigore del Decreto sicurezza i dinieghi sono aumentati dell’80%), ora attendono l’esito del ricorso. «Mi hanno fissato la data per settembre 2020, tra più di un anno», fa presente il giovane togolese, strofinandosi la faccia.

Nel terzetto anche Ameth Diockou, 23 anni, del Senegal. È da un anno e sette mesi che vive al campo. «Ho svolto tante attività di volontariato, dalle colonie estive con i bambini alla pulizia del verde pubblico. Ora sto studiando al Don Milani per prendere la terza media, ma non appena avrò finito cercherò un’occupazione», incrocia le dita. Tra i container, semideserti, risuona una canzona melanconica.



«Nel pieno dell’emergenza - ricorda Tiziano Chizzola, dal 2016 responsabile del campo - in ciascun modulo prefabbricato dormivano 14 persone. Allora erano accolti ben 238 richiedenti asilo, molti dei quali arrivati spesso con pochissimo preavviso, nel cuore della notte. Lavoravano qui 23 operatori, più tutti i volontari». Una pagina di storia cominciata nel 2014 con i primi arrivi, le prime tende. L’ex polveriera di Marco, per rispondere all’ondata migratoria che spingeva dal Mediterraneo, si trasformò in un campo di pronta accoglienza. «Dal 2016 ad oggi sono passate di qui più di 800 persone. In molti sostavano solo pochi giorni, per poi ripartire alla volta di Germania, Svizzera e Nord Europa», inquadra Chizzola. Poi gli sbarchi sono diminuiti. E si sono riaperte nuove rotte, come quella balcanica: «Gli ospiti oggi sono più asiatici che africani, provenienti soprattutto da Pakistan, Bangladesh e Medio Oriente».

Cinque anni di arrivi e partenze. Di polemiche (tante), qualche accesa protesta, ma anche di progetti d’integrazione e inclusione. Su un cartellone, accanto agli ultimi turni delle pulizie, le fotografie con i diversi momenti di vita del campo cominciano a scollarsi. Laboratori di falegnameria, di cucina, tornei di calcio, corsi d’italiano, attività ecologiche e di solidarietà. «La loro parte l’hanno fatta», aggiunge il referente, mentre guarda uno scatto con i ragazzi intenti a spalare la neve dai marciapiedi del paese. Di tutto questo ora rimane poco. Con le nuove direttive nazionali, adottate anche in provincia di Trento, sono stati infatti tagliati trasversalmente vari servizi: dai corsi di lingua ai percorsi di inserimento lavorativo, dai viaggi in autobus ai rapporti con le comunità, fino all’assistenza psicologica e alla possibilità di trasferirsi in appartamento per la seconda accoglienza. Le opportunità erano tante, forse troppe. Fatto sta che, da qualche mese a questa parte, la preoccupazione aleggia tra i ragazzi e gli operatori che ieri, assieme ai tanti volontari, hanno organizzato un’ultima merenda conviviale, prima che il campo chiuda per sempre.

«Si chiude un ciclo, è vero. Lunedì (oggi, ndr) - ci aggiorna Andrea Cagol, responsabile della comunicazione di Cinformi - gli 87 richiedenti asilo di Marco verranno spostati in massa nell’hub della residenza di via Al Desert, a Trento sud, struttura che raggiungerà in totale quasi 300 ospiti. Gli operatori della Croce Rossa, che gestiscono il campo roveretano dal gennaio 2017, spiegano avvieranno un progetto con la cooperativa Kaleidoscopio per coinvolgere i ragazzi in cucina e nella preparazione dei pasti. «Non è solo la gestione della cucina a preoccuparci. Il rischio - concludono Gnassi, Rachid e Ameth - è di perdere tutti i contatti che abbiamo qui. Non è mai facile lasciare un posto dove ti sei trovato bene».


 

UN VILLAGGIO MAI AMATO

Oggi si spegne la luce. Il campo di Marco, dopo aver ospitato in otto anni tremila profughi in arrivo da ogni angolo dell’Africa e dell’Asia - gente in fuga dalla guerra, dalla fame, dalle dittature e, in alcuni casi, da se stessa - viene  chiuso ai migranti per tornare ad essere il centro della Protezione civile.

Per quasi un decennio, però, è stato trasformato in un paese figlio di una società che ha paura degli altri, con un via vai continuo di fantasmi che, non essendo costretti a rimanere, si incamminavano sul ciglio della statale per raggiungere l’Europa sognata, lontana forse ma magari no, in fin dei conti non avevano la più pallida idea di dove fossero capitati. Ma è stato pure una fotografia di un mondo che, volenti o nolenti, sarà sempre più multietnico al di là dei muri e delle barricate di chi si ostina a voler chiudersi dentro casa propria.



Da hub di prima accoglienza quando il fenomeno degli sbarchi ha fatto pensare all’invasione, il centro di via Pinera ha accolto e diviso, ha dispensato solidarietà ma pure odio. Avrebbe potuto essere una palestra, un esperimento per la gestione degli arrivi dei disperati del Sud del pianeta e sul coinvolgimento della società civile ma in realtà, come prevedibile, è diventato un problema. Che ha soprattutto diviso, con polemiche politiche a gogo ma con un obiettivo comune sia a destra che a sinistra: andava chiuso. Le ragioni, ovviamente, sono diametralmente opposte ma l’esito finale è quello che, dopo otto anni, è finalmente arrivato: a Marco non si ospiterà più nessun migrante.

In paese si sentono sollevati, in Comune pure. E la Lega sa la ride sotto i baffi visto che questa è stata una sua battaglia da sempre. In Provincia, come detto, a più riprese si è parlato di chiusura, di trasferimento del punto di prima accoglienza alla residenza Fersina di Trento Sud ma poi, sistematicamente, si è tornati a riportare a Marco il cosiddetto hub. Balletti che hanno avuto come risultato il surriscaldamento degli animi con manifestazioni di protesta ai cancelli di Lega e Fratelli d’Italia, striscioni minacciosi del «Veneto Fronte Skinheads» e accuse ai giovani immigrati di essere farabutti e stupratori.

Su tutti un episodio, che ha rischiato di portare al linciaggio: una donna di Marco, nel luglio di cinque anni fa, ha denunciato di essere stata stuprata da un profugo. Una miccia che ha fatto temere il peggio e che ha portato a schedare i 71 ospiti di quel momento. Ma il Dna ha dato esito negativo, si è scoperto in seguito che la violenza sessuale era stata inventata ma di scuse ai ragazzi nemmeno l’ombra.

Più recente è il caso dell’autista di Trentino Trasporti che ha tirato dritto alla fermata dell’autobus di via Pinera lasciando a piedi i migranti che volevano raggiungere il centro storico. Errore o volontà poco importa, visto che passare dal centro della Protezione civile è stato per quasi due lustri come accarezzare le porte dell’inferno. Nemmeno quando, a inizio anni Novanta, è stato aperto il campo nomadi alla Mira si è respirato tanto astio, timore, rancore, razzismo in città.

A restituire umanità a un non luogo figlio dello smistamento degli sbarchi sul suolo italico ci hanno provato il vescovo Lauro Tisi, padre Alex Zanotelli, il decano Sergio Nicolli. E con loro tanti, tantissimi volontari: delle parrocchie, delle associazioni anche sportive, delle scuole. Alcuni giovani sono stati coinvolti nel Progettone, altri nelle feste di piazza, altri ancora accolti dal Natale dei Popoli.
Poteva essere una realtà diversa, è vero, ma non lo è stato. Anche perché c’è sempre stato quell’invito a chiuderlo, ad evitare un lager alle porte di Rovereto. Perché a lungo si è pensato davvero ad un campo di concentramento: container gelidi d’inverno e infuocati d’estate come casa, docce ridotte e proteste per i pasti, come la guerra del pollo scatenata da un folto gruppo di pachistani rimasti senza secondo. Anche qui reazioni politiche diverse ma anche qui un unico coro: chiudetelo.

Ad accelerare sull’addio all’hub ci hanno pensato proprio loro, i migranti in attesa di asilo politico. L’anno scorso si sono ribellati, hanno inscenato una rivolta contro le condizioni «disumane» del campo. Hanno chiesto di uscire, di evitare una sorta di prigione. E domani, esattamente otto anni dopo i primi 10 arrivi (di notte e di nascosto, perché pure la Provincia di sinistra si vergognava), se ne andranno tutti. E l’ultimo spenga la luce e, sopratutto, chiuda la porta su una parentesi che è lo specchio della società stressata e contraddittoria di un’epoca che ci si ostina a chiamare moderna: solidarietà e imbarazzo, accoglienza e ignominia. Sentimenti e reazioni contrastanti che, da domani, saranno solo un ricordo che tutti cercheranno di dimenticare in fretta.

 

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