L'operaio è morto di caldo: Marangoni condannato a 6 mesi

di Chiara Zomer

È una condanna mite, il minimo della pena. Ma è pur sempre una condanna. Che certifica - pe lo meno dal punto di vista giuridico - che quel giorno Carmine Minichino, operaio nel reparto prese della Marangoni pneumatici, non è morto per colpa di una disgrazia. È morto perché in quello stabilimento non si è fatto quel che si doveva fare per tutelarlo dal caldo di un'estate torrida oltre ogni precedente. Si è chiuso così, ieri mattina, il processo più mediatico degli ultimi anni. Una sentenza - quella del giudice Carlo Ancona - che ha sfrondato abbastanza le tesi d'accusa. Assolto il medico del lavoro Marco Fabbri, per cui anche il pm Fabrizio De Angelis aveva chiesto, al termine del dibattimento, l'assoluzione. Minimo della pena a Giovanni Marangoni, imputato in qualità di datore di lavoro, e assolta l'azienda: chiamata in causa secondo la norma sulla responsabilità penale delle persone giuridiche, rischiava un'ammenda importante, ma soprattutto misure interdittive che potevano arrivare fino alla sospensione dell'attività e alla revoca dei contributi. Quanto alle parti civili, Marangoni è stato condannato a risarcire il danno ai due figli di Carmine Minichino, da quantificare in sede civile. Negato invece il risarcimento ai fratelli dell'operaio, perché l'assicurazione dell'azienda li ha già risarciti (con quietanza presentata ieri in aula). Infine, negate le richieste sia di Cobas che di Inail, entrambi costituitisi parte civile. Il perché, sarà possibile chiarirlo però solo dopo la lettura delle motivazioni. 

La vicenda ormai è nota: il 22 luglio 2015, in una delle estati più torride che si ricordino, Carmine Minichino, operaio del reparto di vulcanizzazione alla Marangoni pneumatici, si è accasciato a terra svenuto. Portato al pronto soccorso, aveva la febbre a 42. E i medici non sono più riusciti ad abbassarla: è morto per shock termico Da qui l'inchiesta e, appunto, il processo, dove si sono scontrate tesi opposte: un giudizio complesso, dal punto di vista giuridico. Quattro erano i nodi da sciogliere: la causa della morte, la temperatura effettivamente esistente in quel reparto, le eventuali carenze del datore di lavoro o del medico e il nesso causale diretto tra queste carenze e la morte di Minichino. 

L'accusa. Per il pm Fabrizio De Angelis, tutti e quattro i punti al termine del dibattimento erano stati provati. Da qui le richieste, pesanti per Marangoni: 2 anni e 8 mesi per lui, 240 mila euro e 6 mesi di misure interdittive per l'azienda. In sintesi, l'accusa ha chiarito in requisitoria che «non c'è dubbio circa la morte per shock termico, perché lo dicono i consulenti di procura e parte civile, perché emerge dalle risultanze processuali e perché il consulente della difesa non ha portato elementi a sostegno di una causa della morte alternativa». Una morte, secondo l'accusa, dovuta a omissioni del datore di lavoro, messo a conoscenza già nel 2011 dei rischi legati al microclima severo: non avrebbe fatto abbastanza contro il caldo in fabbrica, non avrebbe vigilato affinché i lavoratori effettuassero le pause, non avrebbe messo a loro disposizione - se non dopo la tragedia Minichino - un locale refrigerato dove riposare. La medesima tesi sostenuta dalle parti civili. 

Le difese. Quanto a Fabbri (difeso dall'avvocato Roberto Bertuol) poco c'era da dire: in dibattimento è emersa l'impossibilità di imputargli responsabilità nella vicenda. Per Marangoni l'avvocato Andrea Tomasi ha ribadito la tesi difensiva: quello di Minichino non è stato colpo di calore. Non ci sarebbero una serie di elementi necessari affinché venga provato appunto il colpo di calore. Ma, soprattutto, non c'è in letteratura esempio di colpo di calore al chiuso, quindi non da irraggiamento diretto. E quanto alla temperatura, le misurazioni sono state fatte - ha sostenuto la difesa - in modo non accurato: «Non è possibile dire con certezza nemmeno che temperatura c'era, quel giorno, nel reparto presse, qui si parla di sensazioni». Ma soprattutto: «Non c'è prova che Minichino non abbia fatto la pausa, o che se l'avesse fatta non sarebbe accaduta la tragedia, o che se avesse bevuto di più non sarebbe stato male». 

Infine, la difesa dell'azienda, affidata all'avvocato Andrea De Bertolini: «Perché sussista il reato serve che ci sia una condotta omissiva per un interesse e un vantaggio. Entrambi non ci sono in questo caso: non basta la sottovalutazione del rischio, per la condanna».

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