Stenico, in pensione Oscar Pasini l'ultimo custode del castello «ci vivevo fin da bambino»

«Chiudo casa e me ne vado». Oscar Pasini (foto M.Corradi), ha salutato ieri, dopo cinquant’anni, il castello di Stenico. L’ultimo custode riconsegna le chiavi e va in pensione. Aveva 12 anni nell’ottobre del 1969, quando con la famiglia varcò per la prima volta la soglia del castello: vivevano tutti qui, lui i genitori e il fratello, nell’appartamento sopra la cappella. «Essere bambini al castello era bellissimo, giocavamo fra le mura, nei cortili, ma abbiamo anche patito tanto freddo - racconta Oscar - i primi dieci anni avevamo l’appartamento sopra la cappella dove ora ci sono gli arcolai, e non c’era il riscaldamento ci riscaldavamo solo a legna e in un castello era sicuramente originale, ma certo non caldo!».

La mamma era la custode, il padre muratore ha fatto la maggior parte dei restauri del tempo, «io ho mosso qui dentro i primi passi con le mie prime scarpe vere, c’è la mia impronta in una delle sale. Del castello ho dipinto le mantovane dei tetti, ho fatto i piccoli restauri e le piccole manutenzioni degli inizi, quando si poteva ancora farlo, poi è cambiato tutto».

Al tempo il maniero era ancora proprietà del demanio, il soprintendente era l’indimenticato professore Nicolò Rasmo e dei castelli provinciali era valorizzato il Buonconsiglio e poco più: «Mia mamma - racconta Oscar - pur senza obbligo contrattuale aveva iniziato a fare da guida a chi voleva vedere il castello, non bisogna immaginarlo come è ora, al tempo le sale aperte erano poche». Nel ‘73 la Provincia lo comprò e pochi anni dopo Oscar, diciottenne, ne divenne il custode unico. «I primi anni facevo la guida, accompagnavo i visitatori, spiegavo la storia del castello. Partivo dagli appunti che mi aveva lasciato da leggere il professor Rasmo e spiegavo gli affreschi, gli artisti. All’inizio il castello era vuoto, non c’era il mobilio come oggi, quando è arrivato quello sono arrivate anche le guide laureate e io con la mia terza media ho smesso di accompagnare i visitatori».

Negli anni Oscar ha vissuto tutte le vicende del castello: alla fine degli anni Ottanta la scoperta più bella: gli affreschi della cappella. «Mancava un secchio di malta alla fine dei lavori - racconta - e chissà per quanto tempo i dipinti sarebbero rimasti nascosti se non ce ne fossimo accorti. C’era una ditta che lavorava per il restauro della cappella: erano partiti dall’alto e avevano già fatto quasi tutto, finito la volta e tolto i ponti più alti, quando un operaio, togliendo un angolino di malta, ha notato un quadratino di colore: mi hanno chiamato, sono salito sul ponteggio e mi han chiesto cosa fare. C’era un sasso, gli ho detto di toglierlo con delicatezza per capire se la pittura proseguiva e ci siamo resi conto che continuava, ampliando un pochino il buco in profondità è uscito il capitello della colonna dove c’è l’Annunciazione. Il giorno dopo ho cercato l’architetto Adamoli tutto il giorno perché allora non c’erano i cellulari: lo cercavo in ufficio ma non lo trovavo. Finalmente quasi a sera sono riuscito a parlargli e gli ho detto che c’era un affresco, l’architetto allora mi ha detto di allargare un po’ il buco per capire meglio. Abbiamo fatto tirare via un sasso un po’ più in là, ed è uscita la faccia del Cristo, come avesse detto “voglio uscire da qui, sono stato murato per tantissimi anni e ora è tempo di uscire”».

Tutto è cambiato rispetto alla semplicità di allora - «Non si può far nulla che non passi per una mail» riassume efficacemente Pasini - ma ad Oscar mancherà l’anima del castello, quella che non cambia mai: «Sono i muri - racconta, emozionato - ci sono dentro tanti ricordi passati, tanta vita mia e della mia famiglia, mi mancheranno. Tutto il castello ha il suo fascino, ma quando arrivi in cima, dalla sala del camino nero ci si può stare la giornata intera a guardare la valle. Guardare da lì, è uno spettacolo. Ma anche la finestrella sotto la cappella era per noi la “finestra curiosa”, da lì vedevamo tutto quello che accadeva in paese. È il mio mondo che chiudo a chiave per l’ultima volta».

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