«Volontaria? No, imparo a vivere»

La giovane della Val di Fiemme racconta la propria esperienza in una scuola in Sud America

SUCRE (Bolivia) - Se prima di partire chicchessia mi avesse detto che avrei vissuto dieci mesi della mia esistenza in Sud America non gli avrei creduto, se mi avesse chiesto se mi sarebbe piaciuto non avrei saputo rispondere.
Non so rispondere nemmeno adesso. Il progetto con cui sono partita circa tre mesi fa si chiama Dreamer ed è un progetto dell'Unione Europea che punta a sviluppare la partecipazione giovanile alla vita sociale e civile. Mi sono imbattuta nel bando durante una delle lunghe serate di studio per la tesi. Ne avevo parlato con un'amica e avevamo mandato la candidatura insieme, perché ci sembrava interessante partire alla scoperta di un modo di vivere e pensare diverso da quello a cui siamo sempre state abituate. Mesi, una laurea, un contratto di lavoro e parecchi cambiamenti dopo è arrivata la risposta: ero stata selezionata. Per farla breve mi trovo a Sucre, in Bolivia e lavoro come volontaria in una scuola privata che si chiama Unidad Educativa Monte Cristo, dove la direttrice è una tedesca e gli studenti sono più di 400, rappresentanti di tutti i ceti e le classi sociali boliviane. Inutile dire che ogni giorno mi trovo ad affrontare una realtà molto diversa da quella a cui sono abituata. 

La differenza è nel paesaggio (decorato da rifiuti e immondizia che la gente disperde per le strade senza pensarci due volte), nell'aria (mi aspettavo che a quasi tremila metri di quota avrei respirato aria pulita e invece ho dovuto accettare il fatto che le auto e soprattutto gli autobus vadano a veleno e che il traffico sia tanto fitto da far dimenticare cosa sia il silenzio) e nella qualità della vita. Ho la sensazione che anche anche i più benestanti qui, in Europa sarebbero considerati poveri. La scuola dove lavoro riceve finanziamenti dalla Germania, dicono sia uno degli istituti migliori della città in quanto a educazione, ma era una normalissima casa prima che le sue piccole stanze fossero trasformate in aule e continuano ad essere delle piccole stanze, anche se adesso vi vengono ospitate classi di trenta ragazzi, uno più uno meno.

È obbligatoria la divisa, per mascherare le differenze economiche, ma poi alcuni degli studenti si trovano per strada a raccogliere monete o al mercato a vendere frutta e verdura. Mentre in Europa ormai si chiede «hai facebook?» quando si incontrano nuovi amici, oggi ho sentito un ragazzo chiedere a una ragazza se avesse un cellulare. Internet senza fili non ne parliamo, chissà perché avevo pensato di poter restare in contatto con la mia famiglia e i miei amici. La connessione privata (vale a dire in casa) è destinata a pochi eletti e ad alcuni locali pubblici e anche così la velocità delle linee è di 2 mb al minuto, che tecnicamente non so cosa significhi, ma praticamente è fastidioso. Insomma, il famoso Villaggio Globale tarda ancora ad arrivare. Io vivo in una camera con bagno incastrata all'interno di un lungo cubicolo di cemento, dove vivono altri ragazzi e delle famiglie. Il cielo è una striscia azzurra lontana sopra la nostra testa.

Ho scoperto che la cucina è un optional e quando, dopo due mesi di trepidante attesa, ho finalmente ottenuto il mio personale spazio per cucinare, mi sono dovuta rendere conto che ciò che il padrone di casa chiama «cucina» altro non è che una stanzetta maleodorante con una presa elettrica e un lavandino. Ho capito cosa vuol dire «uscire dall'Europa», che non è solo temere di venir punto dalle zanzare tropicali o avere le pulci nel letto. Sto imparando quanto sia stata fortunata a nascere nella parte «giusta» del mondo, ma anche che si può vivere anche senza televisione, internet e acqua corrente (il surriscaldamento globale è un problema vero, non una chiacchiera da bar), che c'è chi lo fa. A dispetto di tutte le scomodità però sono contenta di aver compilato la mia domanda di partecipazione e di essere sempre più consapevole di quello che succede fuori dalla mia confort zone, nel mio stesso mondo. Devo riconoscere che probabilmente i bambini a scuola e la gente per strada insegnano a me più di quanto io possa aiutare loro.

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