Furto d'oca nell'89, porto d'armi addio

Reato, anche se commesso 27 anni fa, ostativo al rinnovo. Il paradosso: si rischia di dover rifare l'esame di caccia

Nel maggio del 1989 rubò un'oca, per quel furto a distanza di 27anni un cacciatore della val di Fassa rischia di non rivedere più il suo porto d'armi ad uso venatorio. Per il cacciatore, un 58enne, è stata una doccia fredda e per di più del tutto inaspettata. L'apertura del procedimento amministrativo da parte della Questura di Trento arriva dopo che in passato il permesso era stato regolarmente rinnovato più volte nonostante gli uffici fossero a conoscenza del vecchio procedente penale, reato per cui il cacciatore aveva ottenuto anche la riabilitazione.

L'amara sorpresa è arrivata, proprio quando la stagione venatoria 2016 si era appena aperta, sotto forma di «procedimento per respingimento della domanda di rinnovo», procedura che potrebbe portare la Questura a non rinnovare il porto d'armi e permesso di detenzione. 

Questo perché il richiedente ha commesso uno dei reati ritenuti ostativi dall'articolo 43 del Tulps, il testo unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza. Poco importa se si trattava del furto di un'oca, una vicenda bagatellare consumata tra vicini di casa. Il reato era comunque furto con decreto penale di condanna, emesso dalla Pretura di Bolzano l'8 giugno del 1989, di 15 giorni di reclusione (il minimo) e 300.000 delle vecchie lire. All'epoca l'imputato mai avrebbe immaginato che quella condanna poteva avere conseguenze a 27 anni di distanza. Ora il cacciatore, assistito dall'avvocato Claudio Tasin, avrà comunque modo di replicare, anche se lo spazio di manovra appare molto ristretto.  

Il caso del furto dell'oca è solo l'ultimo di una lunga serie di permessi di porto d'armi, molto spesso ad uso venatorio, non rinnovati. Alcuni di questi contenziosi sono finiti anche davanti al Tar. L'ultima sentenza su questo tema ha visto la conferma del provvedimento preso dalla Questura che dunque è stato giudicato legittimo. Anche in quel caso si trattava di un reato vecchissimo, un furto risalente al 1981 per cui da molto tempo era intervenuta la riabilitazione.

Il Tar si è di fatto conformato ad una pronuncia restrittiva del Consiglio di Stato (la sentenza è la 2312 del 31 maggio scorso). Il ricorente sosteneva che «l'attività di accertamento demandata alla Questura non può essere limitata al mero riscontro dell'intervenuta condanna penale, senza dare rilievo alle sopravvenienze, e in particolare alla riabilitazione del condannato» che «possono avere inciso sulla complessiva personalità del richiedente e sulla sua oggettiva idoneità al porto d'armi». Argomenti non condivisi dal Tar che ha ribadito quanto sottolineato dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato: «Il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto».

Addio alle armi dunque (sempre che la giurisprudenza non cambi ancora) per chi ha commesso reati ostativi, come i furto, anche se in anni remoti. «C'è anche un ulteriore aspetto problematico - sottolinea l'avvocato Claudio Tasin - se si arriva ad un provvedimento di revoca del porto d'armi definitivo da parte della Questura e poi il soggetto dovesse tornarne in possesso, dovrà però affrontare di nuovo l'esame per ottenere il permesso di caccia, magari alla veneranda età di 70 o 80 anni».

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