Cucchi, lo sport alla radio è un'emozione senza fine

di Leonardo Pontalti

In un mondo nel quale ormai lo sport in diretta è fruibile attraverso la tv, tramite internet o le dirette social, è in un certo senso un record che il racconto alla radio resista.
Non è dunque un caso che a Trento, nei giorni del Festival dello Sport dedicato proprio ai primati, venga presentato anche «Radiogol», il libro di quella che è stata una delle più apprezzate voci di «Tutto il calcio minuto per minuto», Riccardo Cucchi. 

L'ex radiocronista Rai, ripercorrendo i momenti più intensi vissuti in carriera, attraverso i suoi ricordi, tanti aneddoti e riflessioni permette al lettore di rivivere tante pagine emozionanti dello sport - calcio, certo, ma non solo - soffermarsi su spunti proposti mai banalmente o gustarsi qualche piacevole «dietro le quinte». Come la sua prima volta a San Siro, incaricato di affiancare - per le interviste del dopopartita - Enrico Ameri che prima dell'incontro l'aveva trascinato a messa.

Un volume che già di per sé di record ne sta facendo registrare parecchi, a livello di vendite, per la casa editrice «Il Saggiatore». Un libro in cui non c'è troppo spazio per numeri e statistiche, a favore, invece, delle emozioni: quelle che Cucchi ha saputo regalare durante i suoi anni di professione e quelle che lo stesso autore racconta di aver provato, come spiega all'Adige in vista del suo arrivo a Trento, nel pomeriggio di domenica 14 ottobre.
Sono tanti i momenti nei quali, soprattutto nel bene ma anche nel male, ogni appassionato può ricordare di essere stato accompagnato dalla sua voce. Cucchi era a Perugia nel 2000: « Sono le 18.04 del 14 maggio 2000 e la Lazio è campione d'Italia ». Era all'Olimpico nel 2001: « Il fischio finale da parte di Braschi in questo istante... la Roma è campione d'Italia ». Era a Trieste il 6 maggio 2012: « La Juventus è campione d'Italia: questa data verrà ricordata a lungo dai tifosi bianconeri. Dopo sei interminabili anni la Juventus torna a vincere ». Era a Madrid il 22 maggio 2010: « ...ma c'è il contrattacco di Milito... Reteee, rete straordinaria, rete di Milito gentili radioascoltatori: con una finta ha bruciato Van Buyten... ». Un'emozione così grande per gli interisti che, alla sua ultima telecronaca, proprio a San Siro, nel febbraio 2017, la curva gli ha dedicato pure uno striscione.
E poi, signori, Riccardo Cucchi era al microfono da Berlino, nel luglio 2006, con quel suo «Campioni del mondo» urlato quattro volte: «È stato un onore per me essere il terzo radiocronista italiano a poter gridare "Campioni del mondo", dopo Carosio nel 1934 e nel 1938 e Ameri nel 1982, un'emozione fortissima che porto tuttora nel cuore. Sono alcune tra le poche parole, tra le tante che un radiocronista pronuncia in carriera, che restano impresse nell'immaginario collettivo». 

Calcio, ma non solo: anche tante medaglie olimpiche, ad esempio quella di Aldo Montano ad Atene 2004. O i concitati momenti dell'attentato durante i Giochi di Atlanta nel 1996. Una miriade di emozioni, scandite dalla sua voce.
«In effetti è proprio l'emozione uno dei segreti della sopravvivenza della radio anche a fronte di numerosi altri canali per seguire lo sport. È vero, è a suo modo un record che la radio abbia resistito e lo faccia così brillantemente. Del resto, all'arrivo in dosi massicce del calcio in video con l'avvento delle pay tv, non nascondo che molti tra di noi avevano iniziato a temere. Invece le paure si sono rivelate infondate. Per il fascino che il racconto senza le immagini, basato solo sulle parole e sull'immaginazione dell'ascoltatore, riesce ancora a mostrare. O per la natura stessa della distribuzione del calcio in tv oggi, paradossalmente: lo "spezzatino" ha favorito la radio, perché non certo tutti gli appassionati possono starsene sempre davanti ad uno schermo. Per fortuna nella vita si ha anche altro da fare, si è fuori casa, si è al volante. E la radio diventa in quei casi insostituibile. Come lo è per chi non può permettersi il calcio in tv a pagamento».
Anche i radiocronisti, in realtà, finirono sullo schermo, con «Quelli che il calcio» dal 1993: «Quella di metterci in video, nel grande schermo in studio, fu una intuizione di Marino Bartoletti. Di fronte alla quale, in verità, non tutti i colleghi furono entusiasti. In realtà tutto era basato su un videocitofono messo in cabina di commento, ma per molti quella rappresentò una sorta di violazione della privacy ed in effetti un po' di poesia forse venne meno, perché ognuno in base alle nostre voci, non solo immaginava le azioni in campo ma anche i nostri volti. Da allora non fu più così». 

Attraverso le pagine di «Radiogol» si può toccare con mano tutta la passione che Cucchi ha sempre riversato nel suo lavoro: «Non ci si troveranno molti elementi autobiografici, perché non era certo questo il mio intento. Il libro è nato più come un atto d'amore verso quelle che sono state da sempre tra le mie più grandi passioni, la radio ed il calcio». 

Un cuore, quello di Cucchi, che fin dall'infanzia ha sempre battuto per i colori biancocelesti. Ma del suo tifo laziale si è saputo solo dopo la pensione: «Me lo sono sempre imposto. In tanti durante la mia carriera mi hanno chiesto per chi tifassi. Ho sempre risposto che, certo, avevo una mia squadra del cuore: sono convinto che non si possa amare il calcio pienamente senza avere una squadra che più di altre ti faccia emozionare. Ma ho sempre detto che si sarebbe saputo per quale squadra tifassi solo dopo il mio pensionamento. Rivelarlo prima avrebbe voluto dire non poter più essere un giornalista in grado di garantire obiettività, anche solo nelle menti degli ascoltatori. Qualsiasi mia parola o inflessione nel commento avrebbe potuto essere motivo di contestazioni. Credo che sia un discorso che, per chi fa questo lavoro, dovrebbe valere anche in altri campi, come ad esempio la politica. Mi piace molto la definizione del giornalista data da Enzo Biagi, secondo cui siamo "testimoni dei fatti". Ecco, tifo e testimonianza non sono compatibili, per essere testimoni obiettivi. L'obiettività è una cosa a cui ho sempre tenuto molto, a livello personale, prima ancora che di etica professionale. E mi fa piacere che anche dopo aver rivelato il mio amore per la Lazio questo non abbia scatenato critiche in chi per anni ha seguito il mio lavoro, segno che la mia professionalità è sempre stata apprezzata». 

Un percorso lavorativo, quello di Cucchi, iniziato nel 1979 quando superò il concorso per l'assunzione in Rai dopo aver già pensato di dover abbandonare la strada del giornalismo ed aver iniziato ad insegnare. Da subito, davanti alla commissione d'esame, spiegò che avrebbe voluto fare «il radiocronista di calcio» e dopo essere stato affidato alla neonata redazione regionale di Campobasso, l'occasione gliela offrì un malessere di Ezio Luzzi, nel 1981, che non poté scendere da Roma per seguire Campobasso - Fiorentina di Coppa Italia. L'avvio di un percorso chiusosi trentasei anni più in là. E dopo quante telecronache? 

«Non lo so, non ho mai tenuto il conto, così come non ho mai tenuto annotazioni o diari. Il libro stesso non è frutto di un lavoro di raccolta di appunti negli anni o cose simili. Ho sempre ritenuto che il mio lavoro dovesse concentrarsi sul presente e non ho mai badato troppo a fissare ricordi in maniera sistematica. Certe emozioni sono dell'attimo al quale appartengono. Mi piace citare, a questo proposito, data la mia grande passione per la musica classica, il grande direttore d'orchestra Carlos Kleiber, che addirittura era contrario alle incisioni perché, diceva, ogni riproposizione di un brano era diversa». 

Quello tra la radio e Cucchi è un rapporto che nasce ben prima del suo approdo a fine anni Settanta alla Rai: «Io sono nato nel 1952, la mia generazione è nata e cresciuta con la radio. Oggi è difficile adirittura far capire ai ragazzi cosa volesse dire avere solo la radio, per seguire gli avvenimenti». Ed i suoi ricordi di ragazzo non sono troppo diversi da quelli di tanti altri coetanei, ma anche altri quarantenni o trentenni di oggi, o di giovanissimi che ancora rimangono sospesi - in quella tesa attesa sempre uguale da decenni - non appena il rumore del pubblico che esulta interrompe un collegamento, senza che si possa ancora capire chi abbia segnato: «Personalmente ricordo le passeggiate alla domenica, magari al mare ad Ostia, con la radiolina all'orecchio di mio padre e la gente per strada che lo fermava a chiedere: "Che fa la Juve, che fa la Roma...?" Lui in realtà, nato a Torino, era granata. Io, romano, crebbi da subito laziale, invece. Ci sfidavamo tanto, al Subbuteo». 

Il calcio in punta di dito: come la radio, qualche cosa che profuma di antico, ma che proprio per questo continua a mantenere la sua magia.

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