«Trento, il mio calcio è rock» Filippini e il derby col gemello

di Luca Avancini

Con il suo Rezzato all’andata aveva servito al fratello un assist vincente, come ai bei tempi della serie A. Sotto forma di un sonante 5-1, costato poi il posto a Roberto Vecchiato sulla panchina del Trento. Domani c’è il rischio che il fratello Antonio gli giochi il più bizzarro degli scherzi, perché un’altra sconfitta potrebbe davvero costar cara a Emanuele, tecnico della formazione bresciana, fragile capolista del girone. Il calcio alle volte è davvero strano e affascinante, chi l’avrebbe mai potuta immaginare una sfida così tra i due Filippini, con punti tanto pesanti in palio punti tanto pesanti. Rezzato-Trento, Emanuele contro Antonio, fratelli e avversari per la prima volta di fronte da allenatori, dopo una vita trascorsa a macinare chilometri insieme. Sudore e fatica, condivisi sul campo come sul palco. Già perché c’è un’altra grande passione a saldare insieme i gemelli, la musica rock. Negli scaffali di casa ci sono più dischi che maglie e trofei calcistici, a cominciare naturalmente da quelli dell’idolo Bruce Springsteen. Musica materica, che odora di terra e olio di motore, che non offre raffinatezze armoniche, ma note debordanti, scariche di energia compulsiva e irrefrenabile. La stessa che ha animato le corse dei due fratelli, instancabili su e giù per il campo. «Una vita da mediano, a lavorare sui polmoni», avrebbe detto l’amico Ligabue. «Finché ce n’hai stai lì», aggiungerebbero oggi loro. Ed ecco allora che una chiacchierata con Antonio, allenatore del Trento, alla vigilia della difficile trasferta in casa di Emanuele, non può che scorrere sulle note delle canzoni più famose del grande cantautore statunitense.

I’M A ROCKER - «Se la sua vita fosse una melodia sarebbe un giro di Do: facile, orecchiabile e che non stanca mai». Così aveva scritto qualcuno tempo fa per spiegare l’uomo Antonio Filippini. L’amore per la musica rock gliela ha trasmessa proprio il fratello Emanuele: «Io ero un fan di Bob Marley, lui di Springsteen - racconta - discutevamo spesso animatamente se fosse meglio il rock o il reggae. Non avevo i capelli da rasta, ma quando mi allenavo con i ragazzini del Brescia portavo sempre la berrettina giamaicana con i colori nero, rosso, giallo e verde. Adoravo Bob Marley, purtroppo non ho mai potuto vederlo dal vivo e alla fine mi sono lasciato contagiare da Emanuele. D’estate partivamo per seguire Springsteen nei tour in giro per l’Europa o America. Spesso in sella all’Harley Davidson, da veri rockettari. Un anno ci siamo fatti tre serate di fila, Zurigo, Praga, Vienna, tutte in moto, partendo da Brescia. Il più delle volte alloggiavamo tutti nello stesso albergo, insieme ad altri fan, magari in cinque o sei nella medesima camera. Una volta ci siamo persino appostati non lontano da casa sua, a New York, per poco la polizia non ci ha arrestato».

LOST IN THE FLOOD - «In un’altra occasione con un paio di amici siamo riusciti a incontrarlo a Dusseldorf, prima di un concerto. Gli abbiamo chiesto una canzone, «Lost in the Flood», ci ha risposto che l’aveva già cantata la sera prima e che non voleva farlo di nuovo. Noi però non abbiamo mollato e alla tappa successiva di Francoforte ci ha accontentato, si è messo al piano e mentre strimpellava le prime note ce l’ha dedicata. “Per quei quattro ragazzi che mi girano intorno da diversi giorni, spero che con questa canzone si levino finalmente dal culo”. In inglese credo che suonasse più o meno così. C’è il bootleg di quella serata e si sente il pubblico tedesco che ride, mentre noi urliamo di gioia. “Be Stalking by the Stalkers” aveva aggiunto, e quel “Stalkers” è diventato il nome di battaglia della nostra Band». Antonio infatti è pure cantante, chitarrista, autore e leader del gruppo con il quale ha pubblicato il disco «Antonio Filippini & the Stalkers. «Io ed Emanuele suoniamo la chitarra, la musica e i testi originali però sono miei».

FIRE - «Spesso ci ritroviamo il lunedì sera a provare insieme agli amici, meglio che andare in discoteca. Ogni tanto facciamo qualche concerto. A Palermo, subito dopo l’ultima partita di campionato con il Bari, abbiamo improvvisato un’oretta di show insieme a mio fratello e ad Andrea Gasbarroni, per festeggiare la promozione in serie A. Ci siamo esibiti davanti a 40mila persone, eseguendo cover di Vasco e Ligabue. Un’emozione pazzesca. Abbiamo suonato anche con Max Pezzali e i Negrita, e giocato qualche partita con la Dinamo Rock di Ligabue e Piero Pelù. La passione è tanta e cerchiamo di frequentare il più possibile l’ambiente musicale». Dal vivo è meglio. «Ho assistito a oltre 70 concerti per il mondo, indimenticabili quelli di Deep Purple, AC/DC, Kiss e Led Zeppelin. Rock, heavy e hard rock sono i generi che più ci piacciono, ci trasmettono tanto quando li ascoltiamo. È così anche per i dischi, preferisco comprarli e non scaricarli. Mi piace sentirli fisicamente tra le mani, leggere le note di copertina. L’ultimo? Un cd dei Pearl Jam».

NO SURRENDER - Il modello Springsteen è diventato col tempo uno stile di vita. «Incarna i valori in cui crediamo io e mio fratello». I valori della working class, della generazione dei nati per correre. La vita risplende di contraddizioni insanabili, ma vale la pena di essere vissuta, ci ricorda il Boss. Sino in fondo. La musica fa breccia nel cuore, ci fa sognare e riemergere dall’oscurità. «No Surrender è la canzone che forse si identifica meglio con questa filosofia. La filosofia della tenacia, della determinazione, della voglia di non arrendersi mai e continuare a lottare comunque».

WRECKING BALL - Nel finale di questo pezzo c’è una frase ripetuta più volte. «And hard times come, and hard times go». I tempi duri vanno e vengono. «Il segreto è nell’equilibrio. So che bisogna continuare a pedalare qualsiasi cosa succeda. Anche quando qualcuno prova a ferirti, addirittura a demolirti come persona. Non c’è altro da fare che rimboccarsi le maniche e reagire».

HUNGRY HEART - Un cuore affamato, è quello che serve per emergere? «Sì, bisogna sempre avere fame di faticare e migliorarsi, avere l’umiltà di saper ascoltare. Nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, nella vita sentimentale, nel rapporto genitori-figli. Voglia di trasmettere certi principi, e voglia di dare sempre il cento per cento. Io sono così, lo sono sempre stato, concentrato solo sul presente. Credo si viva meglio senza pensare troppo al passato o al futuro. Per questo se mi guardo indietro non provo alcun rimpianto. Sono pienamente soddisfatto di ciò che ho fatto».

THUNDER ROAD - «Lo so che è tardi, ma possiamo farcela se corriamo». È il richiamo all’ultima corsa, quella verso la redenzione. Ma anche al fatto che la voglia di combattere in ciò che più credi non deve mai venire meno. «È così. Quello che esigo dai giocatori è che diano sempre il massimo in campo. È vero che nel calcio sono i risultati a condizionare il più delle volte i giudizi, ma se riesci a mettere tutto te stesso in quello che fai, a dare l’anima, allora puoi andare a casa con la coscienza a posto e nessuno ti potrà mai criticare».

BLOOD BROTHERS - «Con Emanuele ci sentiamo e ci confrontiamo spesso, anche sulle situazioni di gioco. Sarà una bella sfida, tutti e due vogliamo vincere. Da avversari ci siamo affrontati una sola volta e in campo ce le siamo date di santa ragione. Poi siamo andati a berci una birra insieme». Il vulcanico presidente Cavagna, quello del Lumezzane, aveva lanciato la suggestiva ipotesi di avere in panchina tutti e due i fratelli, uno a curare la fase difensiva (Emanuele), l’altro la fase d’attacco (Antonio). «Forse perché come giocatore io ero un po’ più offensivo. Siamo un po’ diversi anche come carattere, diciamo che lui è più istintivo, diretto, se deve dire qualcosa non ci pensa su troppo. Io sono in genere più riflessivo».

ONE STEP UP - Al Fantacalcio meglio Antonio quindi: «Tutta la vita (ride di gusto). Io sempre fatto più gol di lui. I più belli? Ho segnato di testa a Juve, Inter e Roma. Mica male eh. Quando entravo in area i difensori mi guardavano storto, sembrava che dicessero ma che ci fa qua ‘sto piccoletto, e io ogni tanto li castigavo. Sono riuscito a far gol saltando tra Materazzi e Zanetti. Che soddisfazione. Anche noi giocavamo al Fantacalcio con gli amici, io prendevo sempre tutti e due e poi mi divertivo a lasciare mio fratello in panchina». A proposito, a chi è toccata la patata più bollente, a suo fratello Emanuele che deve far girare un gruppo pieno di prime donne, o a lei che deve salvare una squadra poco preparata per farlo? «Sono due belle sfide, ugualmente stimolanti. È differente la situazione societaria, a Rezzato c’è un imprenditore che ha grandi ambizioni, ha costruito un settore giovanile importante, e adesso ha fretta di portare in alto la prima squadra. La pressione è forte. Mauro Giacca è un presidente ugualmente passionale, ma qui posso lavorare con maggiore tranquillità. Mi ricorda gente come Corioni, Spinelli o Lotito. Erano tutti così, sanguigni, ma sinceri. Ben vengano i presidenti con questo entusiasmo, portano passione e risorse».

THIS HARD LAND - La corsa verso la salvezza si sta rivelando più dura del previsto. «Non direi, il percorso è tutto sommato in linea con le aspettative. Ci voleva tempo per creare l’amalgama giusta, c’erano tanti giocatori nuovi che dovevano integrarsi con compagni e schemi diversi. Nel momento più delicato però siamo riusciti a farci forza e a infilare una serie di risultati positivi. In questo senso aver giocato tante partite ravvicinate ci ha aiutato. Purtroppo ci portiamo dietro la zavorra dei punti di ritardo. Serve ancora un po’ di pazienza».

I’M GOIN’ DOWN - «Ti senti appagato solo quando mi butti giù» canta ancora il Boss. A Trento il rapporto tra società e ambiente non è mai stato semplice. E sembra sempre che ci sia qualcuno che goda quando la squadra va male. «Questa sensazione l’ho avuta anch’io, ma la considero positiva. Significa che c’è tanta voglia di calcio. Sta a noi ricreare entusiasmo nella gente, portare dalla nostra parte i tifosi. Non il contrario. Questa piazza ne ha passate talmente tante ed è normale che abbia ancora un atteggiamento critico. Ma questo aiuta a crescere. Qualcosa sta cambiando, è stato bello vedere un pullman di sostenitori a Darfo. Speriamo ci seguano anche a Rezzato».

THE PROMISED LAND - Trento come punto di partenza. «Prima di novembre non ero mai stato qui, nemmeno per mercatini. Ho preso casa a Romagnano, ma mi piace vivere la città, la gente è tranquilla, pacata ed educata. La società ha tanta voglia di costruire qualcosa di importante, e io con lei. Non sarebbe male diventare il Ferguson del Trento. Qui ci sono tutte le potenzialità per far bene».

BORN TO RUN - Inutile chiedere con quale disco i due Filippini proveranno a caricarsi in vista del derby in famiglia. «Born to Run è il massimo». Che altro? L’unico che un vero cuore rock porterebbe con sé in caso di diluvio universale.

SHE’S THE ONE - I giocatori più forti incontrati in carriera. «Direi tre, Ronaldo, Zidane e Baggio». E Guardiola? «Un grande. Era già un allenatore in campo, si vedeva che aveva la stoffa del leader. Il calcio che fa adesso ce l’aveva già in testa quando era giocatore. Ci diceva: “Voi datemi la palla anche se sono in mezzo a tre avversari, vuol dire che due compagni sono liberi”. Da lui ho imparato tanto. È arrivato a Brescia con un’umiltà, uno spirito e un entusiasmo incredibile. Mi piace il suo spirito, ma al tiki taka preferisco il calcio all’italiana. Si può andare in porta anche con un solo passaggio».

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