Convegno a Trento: l'Alzheimer si combatte con una vita sociale

L'Alzheimer si previene a tavola, pregando, studiando, facendo volontariato e passando il tempo con i propri cari. Anche per le malattie neurocognitive il mondo medico sta infatti studiando l'ipotesi, sempre più accreditata, che i fattori di rischio siano gli stessi delle malattie cardiovascolari, ovvero fumo, alcool, una dieta malsana, obesità, ipertensione, sedentarietà. Ma anche elementi di tipo sociale e famigliare, tanto che la Psicogeriatria è considerata la medicina emergente del terzo millennio: la solitudine percepita può aumentare il rischio di Alzheimer fino a 2 volte, la mancanza di partecipazione alla vita sociale e di contatti relazionali aumenta il rischio di demenza rispettivamente del 41% e del 57%.

Ne ha parlato sabato mattina Luc Pietr De Vreese direttore sanitario di Villa Maria a Calliano dove ci si occupa di disabilità intellettiva di adulti e anziani, al convegno "La medicina di base in frontiera. Le sfide dell'invecchiamento e del declino cognitivo" organizzato alla Scuola delle Professioni del Terziario di Trento. Qualche dato per inquadrare l'insorgenza dei disturbi neurocognitivi maggiori, volgarmente noti come demenze: ogni 3,2 secondi una persona nel mondo si ammala di demenza. Solo il 60% dei pazienti viene diagnosticato dai medici di base e il tempo medio che passa fra i sintomi conclamati e la diagnosi è di 14 mesi.

Un ritardo dovuto in parte allo stigma che ancora la malattia porta con sé per cui le famiglie faticano ad ammettere che un loro caro sia ammalato, ma in parte dipende anche dai medici: il 57% dei medici di base, secondo uno studio europeo condotto in Grecia, Gran Bretagna, Francia e Italia, ritiene inutile una diagnosi poiché non c'è una cura. L'ipotesi di fattori di rischio comuni con altre patologie è accreditata nel mondo medico e segna un cambio di tendenza nella ricerca: ci si sta concentrando sulla prevenzione da quando è apparso evidente che la scommessa di Barack Obama di trovare una cura per l'Alzheimer entro il 2020 è persa. Non si sono infatti individuate le cause della malattia e parecchie case farmaceutiche che avevano colto la sfida stanno abbandonando il campo dopo aver investito risorse ingenti (7 milioni di dollari è il costo medio di uno studio di ricerca) senza essere riuscite ad arrivare a risultati e di conseguenza senza la prospettiva di profitti commerciali. Fare prevenzione e riuscire ad arrivare ad una riduzione del 10% dei fattori di rischio porterebbe secondo le ipotesi mediche a una diminuzione di 9 milioni di casi di Alzheimer al mondo entro il 2050.

Sono due le buone notizie sul fronte Alzheimer: anzitutto i casi incidenti in Europa sono in diminuzione, inoltre abbiamo la possibilità di allenare il cervello a resistere alla patologia: «È possibile in chi ha studiato e iniziato fin dall'infanzia a coltivare dei fattori protettivi - ha spiegato De Vreese - avere la malattia istologica ma non manifestarne gli effetti perché il cervello è resiliente, in grado di combatterne le manifestazioni». Quali sono i fattori protettivi? Studiare, fare attività fisica quotidiana, mantenere un'attività cognitiva e sociale, ma anche coltivare la propria spiritualità e le amicizie. Se il mantenere il cervello in attività fin da piccoli è una strategia contro l'Alzheimer, l'Italia è a rischio: «A preoccupare è l'aumento dell'abbandono scolastico nel Paese ? ha sottolineato De Vreese ? perché sappiamo che arrivare almeno al diploma di maturità e quindi avere la prospettiva di un lavoro cognitivamente impegnativo è un fattore positivo nel ridurre l'insorgenza di demenze». 

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