L'addio del primario Galligioni «Dal 25 maggio una nuova vita»

Originario di Padova, da 20 anni alla guida dell'Unità operativa di oncologia del Santa Chiara: «Lascio un reparto del quale vado orgoglioso. Necessario il nuovo ospedale»

di Patrizia Todesco

Dopo 20 anni esatti come primario di oncologia medica al S. Chiara di Trento il dottor Enzo Galligioni, padovano d'origine ma trentino d'adozione, andrà in pensione. Il 25 maggio sarà il suo ultimo giorno di lavoro e a quel punto anche l'oncologia sarà un qualcosa che non lo riguarderà più. 

«Farò altro - assicura - . Per me la pensione vuol dire cambiare vita. Non voglio più occuparmi di oncologia e quindi niente visite private o consulenze. Ho alcuni progetti, qualcosa nell'ambito della medicina e del volontariato, ma ancora nulla di definito. E poi ci sarà spazio per le mie passioni: il volo, la musica classica, la montagna, la cucina e la barca a vela».

Perché questa scelta di troncare dopo tanti anni in ospedale tra i pazienti?

Perché l'oncologia è complessa e l'evoluzione delle conoscenze rapida. Una volta fuori non si riesce ad aggiornarsi e a collegare i casi clinici con i progressi. Nel giro di pochi mesi si è vecchi e si rischia di dare consigli non utili. Sarei potenzialmente pericoloso per gli altri. Inoltre il singolo non è in grado di gestire un paziente oncologico. Non basta un bravo medico, ci vuole l'equipe.

Ultimo giorno di servizio sarà il 25 maggio, ma immagino che avrà ferie arretrate e andrà via con qualche giorno d'anticipo.

In effetti ho ancora 66 giorni di ferie arretrate ma credo che li «regalerò» all'Azienda. Non perché sono generoso, ma perché voglio lasciare le cose nel migliore dei modi e dal 26 maggio voglio proprio voltare pagina.

Vent'anni alla guida di un reparto, come quello oncologico, dove a volte la medicina non riesce a vincere. Il senso di impotenza è uno stato d'animo che ha avvertito più volte?

Inevitabilmente sì, ma l'oncologia medica è molto cambiata. Un tempo chiamavano l'oncologo poco prima del prete per l'estrema unzione. Oggi è una branca importante della medicina. Le nuove cure, i farmaci, gli strumenti diagnostici hanno cambiato anche i risultati. E se è vero che un bambino su due è a rischio, nel corso della vita, di ammalarsi di tumore, è anche vero che il 60% dei pazienti guariscono. 

Nel suo reparto avrà visto tante storie drammatiche, ma anche qualche storia di speranza. Ne ricorda qualcuna in particolare?

In effetti ci sono state tante storie tristi, perché purtroppo i tumori «ingovernabili» ci sono. Però ci sono state anche tante storie a lieto fine. Ricordo, in particolare, che proprio poche settimane dopo il mio arrivo a Trento, in reparto arrivò un ragazzo sedicenne della Val di Sole con un tumore avanzato e diffuso, in fase pre-terminale. Abbiamo subito cominciato la terapia con molta preoccupazione. E quel ragazzo è guarito. Ora è un uomo sposato che vedo con piacere una volta all'anno. Le cure giuste, nel contesto giusto fanno la differenza. Non l'ho salvato io quel giovane, lo hanno salvato le cure oncologiche.

Miracoli e sconfitte. Limiti umani. Ma lei è credente?

Sono credente ma poco praticante. Credo che qualcosa ci sia altrimenti certe cose sarebbero inspiegabili. Motivo principale per cui continuo a credere è che più conosco la biologia e più mi risulta impossibile pensare che certe cose siano avvenute in modo fortuito.

Come mai, dopo l'università di medicina, decise di diventare oncologo?

Al terzo anno andai a trovare un mio cugino malato di tumore, ricoverato nel reparto di oncologia dell'ospedale di Padova. Lì incontrai il medico che lo stava curando e, saputo che stavo studiando medicina, mi chiese cosa volevo fare. Io avevo una mezza idea di fare l'internista ma lui mi convinse a frequentare il suo reparto. La mia fortuna è stato trovare l'ambiente e il maestro giusto.

Ora verrà indetto il concorso per coprire il suo posto. Pensa che ci sarà partecipazione oppure Trento sta diventando una realtà poco appetibile per i medici?

Persone interessate ce ne saranno sicuramente. Se ci riferiamo agli incarichi in periferia il discorso è diverso. C'è bisogno di una sanità che guardi ai reali bisogni. Gli ospedali periferici sono importanti per le cronicità e le urgenze, ma non per gli interventi o le nascite.

Oggi si parla tanto di corretti stili di vita: quale delle raccomandazioni che voi oncologi fate spesso lei rispetta meno?

I miei peccati sono sicuramente di gola. Mi piace anche un buon bicchiere di vino ma tutto sommato non sono grandi «sgarri», perché il problema è sempre la quantità.

Cosa ne pensa del dottor Umberto Veronesi che è diventato vegetariano?

Io non diventerò mai vegetariano perché sono convinto che la dieta mediterranea sia vincente. Contesto anche coloro che dicono che una dieta vegana consenta di vincere il cancro. Non è vero. La dieta può aiutare, nel senso che il sovrappeso non è solo un fattore di rischio ma anche di prognosi perché avere una certa forma fisica aiuta le cure.

Lei è stato assunto nell'epoca in cui direttore dell'Azienda sanitaria era Nicolai. Poi ha vissuto l'era Favaretti e quella Flor con il passaggio di numerosi assessori. C'è stato un periodo che ritiene migliore di altri?

Con Marino Nicolai, che mi ha assunto e poi confermato dopo il ricorso al Tar, ho avuto una breve collaborazione. Di Favaretti ho apprezzato l'aspetto organizzativo che ha dato all'Azienda e il miglioramento in termini di efficienza. Di Flor ho apprezzato il rapporto con i medici anche se in questi anni c'è stata una prevalenza dell'aspetto manageriale su quello assistenziale. Ci vuole maggiore equilibrio. E anche i politici è giusto che sappiano cogliere le istanze dei pazienti e indirizzino il management, ma devono anche ascoltare gli operatori sanitari, in prima linea nella gestione della salute.

Lei lascia un reparto di cui è molto orgoglioso. Che indicazioni dà al suo successore?

Di proseguire così. All'Azienda e alla Provincia dico che il nuovo ospedale non è più un'opzione o un lusso. È una necessità. E poi serve una integrazione reale tra ospedale e territorio che dia le giuste competenze a seconda degli obiettivi. La sanità trentina è di ottimo livello e a volte è sottovalutata dalla popolazione. Su questo pesa anche l'immagine non ottimale dell'ospedale S. Chiara che non è un buon biglietto da visita.

Un malato di tumore, dunque, secondo lei non ha motivo di andare a curarsi fuori provincia?

Se non ha un tumore particolarmente raro direi proprio di no. Oggi come oggi farsi curare per un tumore che riguarda gli adulti fuori provincia non è giustificabile in termini di qualità, tempestività ed approccio complessivo. Abbiamo un'ottima sanità ed è anche per questo motivo che, diventando vecchio, resto a vivere qui in Trentino. Non si sa mai di averne bisogno come utente.

Lei in Trentino ha tessuto una serie di relazioni importanti. Non solo è primario, direttore del dipartimento, presidente dell'associazione dei primari ospedalieri (Anpo) e membro del comitato etico, ma ha anche ruoli all'esterno dell'ospedale.

Faccio parte del comitato tecnico-scientifico dell'Fbk, del Cda della Fondazione Cariplo, Pezcoller e del consorzio Criospazio. E inoltre il mio lavoro mi ha portato a contatto diretto con molti dei maggiori esponenti del mondo universitario, economico e politico del Trentino. In questo contesto ci tengo a ricordare la collaborazione con l'Associazioni artigiani e la Lega Tumori, con le quali abbiamo potuto realizzare la Casa dell'Accoglienza per ospitare pazienti e loro familiari residenti lontano da Trento.

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