Il bagher di Francesca Bosio La storia di un'atleta vincente

di Matteo Lunelli

Lo sport in generale, e la pallavolo in particolare, possono essere anche una forma di riscatto e di rivincita. Possono dare vita, continuamente, a nuovi sogni e a nuovi obiettivi. C’è chi vive l’attività sportiva come un semplice hobby o un passatempo, e chi può dire di aver imparato a fare un bagher ancor prima di gattonare.

La storia è quella di Francesca Bosio, atleta molto conosciuta in regione, soprattutto per i suoi successi, le sue vittorie, la sua passione. Lei è indiscutibilmente «la figlia di», ma con grande carattere e determinazione è riuscita a ritagliarsi uno spazio tutto suo: si è guadagnata e sudata ogni singolo «step», ogni singolo campionato, ogni singola schiacciata.

E oggi è semplicemente Francesca Bosio, «Fra» per compagne e amici, una ragazza che nel volley ci sa fare, e chi siano e cosa abbiano fatto i suoi genitori poco importa. Eppure, quando è nata, si sarebbe potuto pensare a lei in un futuro in quasi ogni sport, a parte la pallavolo: quel problema alla mano sinistra avrebbe potuto sconfortare chiunque, ma non lei. Un handicap che si è trasformato in una possibilità: perché oggi può sognare le Olimpiadi, nel sitting volley, uno sport relativamente nuovo che rappresenta appunto una forma di riscatto per tanti atleti.

Francesca è figlia di pallavolisti: mamma Monica Dal Corso ha giocato tra serie A e serie B e poi si è ritagliata uno spazio come allenatrice, conosciuta e apprezzata, una delle prime e poche donne nel settore in Trentino, capace di gestire e comandare a bacchetta uomini di ogni età. Papà Giampietro Bosio ha giocato per tanti anni fino alla serie B e poi è stato ed è molto attivo come dirigente sportivo, soprattutto come presidente dell’Argentario Calisio.

«Mamma e papà non volevano che giocassi a pallavolo: non perché dubitavano del fatto che avrei potuto farcela, nonostante il mio problema, ma perché temevano sarei potuta essere sempre “la figlia di” e mi paragonassero a loro. Però in realtà mi hanno spinto verso il volley, perché mi hanno fatto provare da piccola sport come la scherma, il nuoto o l’atletica, per i quali non ero assolutamente portata».

Francesca, 24 anni, scherza: «Sono una pigra, non potevo fare nuoto o atletica. E la scherma proprio non faceva per me. Fin da piccola invece andavo con mamma e papà in palestra, perché loro allenavano e giocavano, così mi sono innamorata della pallavolo. Scherzando diciamo che ho imparato prima il bagher che a gattonare. I miei genitori, quando ho deciso, mi hanno poi sempre supportata, spronata e consigliata e così ormai gioco da tantissimi anni».

E come gioca! Più forte della sfortuna, più forte del dover giocare senza una mano, Francesca ha messo a terra centinaia e centinaia di palloni, schiacciando forte, ma anche giocando d’astuzia e di tecnica. Lei è umile, e non vorrebbe raccontare tutto il suo curriculum. Allora lo facciamo noi, andando a pescare negli anni, perché lei di stagioni con «zeru tituli» ne ha finite ben poche: campionessa provinciale under 16, con premio di Mvp delle finali e fascia da capitano sul petto, con il suo ultimo punto, un pallonetto furbo e beffardo, al termine di un tie break infinito. E poi un titolo under 18, promozione dalla C alla B2 l’anno scorso a Pergine, un’esperienza in serie B e un ruolo sempre di primo piano nelle squadre dove ha militato, dall’Ata all’Alta Valsugana, passando per Argentario, Lavis e (ora) Sopramonte.

Il tutto grazie a una tecnica sopraffina, costruita anno dopo anno in palestra: un bagher dotato di grande sensibilità, in attacco una grande varietà di colpi e una battuta, piedi a terra, al salto o jump float, precisa e incisiva. Del palleggio ne ha praticamente sempre fatto a meno e a muro ha sfruttato il suo metro e ottanta con una mano: tecnicamente si tratta delle due «pecche» che forse le hanno impedito una carriera a livelli ancora più alti.

«Gli idoli? Beh, nel femminile la Picci, ovvero Francesca Piccinini: lei è la pallavolo, tecnicamente e moralmente. Nel maschile dire Lollo Bernardi sarebbe scontato e allora mi lancio su un palleggiatore, un grande palleggiatore come Nikola Grbic».

Poi tre anni fa, una nuova chance: il sitting volley. «Mi hanno contattata quasi per caso, tramite ex allenatori. Ammetto che non sapevo minimamente di cosa si trattasse, ma poi mi sono fatta spiegare e ho guardato un po’ di video su YouTube. Così tre anni fa sono andata a Fossano, in Piemonte, per un ritiro: mi ha portata mio papà ed è stata la mia prima volta nella pallavolo da seduti. I fondamentali sono gli stessi, ma in realtà è un altro sport rispetto al volley diciamo “normale”: non c’è il salto, non ci sono corsa e accosciate, però mi è piaciuto e ho deciso di mettermi in gioco, senza però lasciare i campionati federali. La vivo come un’esperienza diversa, come una possibilità che mi ha permesso di conoscere ragazze e persone fantastiche, che affrontano la propria disabilità con coraggio».

Nella nazionale la nostra trentina è l’unica che gioca anche nei tornei per normodotati. E il grande sogno ha un nome, ovvero Tokyo, e una data, 2020: le Paralimpiadi. «Tutti i Paesi del mondo presenti, il villaggio olimpico, l’inno, le bandiere, le tv, i fotografi, sarebbe veramente un sogno. Ma per ora non ci penso: ci sono le qualificazioni, sarà durissima. E poi sono un po’ scaramantica».

Anche perché prima delle Olimpiadi ci sono altri appuntamenti, a partire da quello di fine marzo con il viaggio in Corea del Sud per le qualificazioni mondiali. E su quell’aereo salirà la dottoressa Bosio. «Partiremo il 23 e io il 21 o 22 prenderò la laurea in Economia, sto scrivendo la tesi proprio in questi giorni. Il torneo si svolgerà nell’isola vulcanica di Jeju e cercheremo un pass per i mondiali che si svolgeranno in Olanda quest’estate».

Oltre alla pallavolo, quindi, per Francesca c’è lo studio. Ma spesso le cose vanno di pari passo. «Anche quando ho fatto l’anno all’estero negli Stati Uniti, in Michigan, ho giocato nella squadra del college».

Università e volley, che sia sitting o no. Con un sogno a cinque cerchi nel cassetto, che per una ragazza come Francesca sarebbe il coronamento di una carriera più forte della sfortuna, di una sfortuna che ha saputo schiacciare a terra, sempre con il sorriso sulle labbra. «Episodi di scarso rispetto? No, mai, assolutamente, nemmeno una parola fuori posto, uno sfottò, una cattiveria. Da questo punto di vista la pallavolo è uno sport educato, dove il rispetto non manca mai».

Intanto «Fra» continua a giocare e a sognare, schiacciando a terra ogni pallone, più forte della sfortuna, più coraggiosa della sfortuna.

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