In pensione il primario «rivoluzionario» De Stefani ha cambiato la psichiatria

di Franco Gottardi

Renzo De Stefani va in pensione. Primario di psichiatria a Trento è stato un innovatore in una professione svolta con grande passione fino all'ultimo giorno. 

[[{"type":"media","view_mode":"media_large","fid":"1661466","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"320","width":"480"}}]]


Dottor De Stefani, lei si è laureato in psichiatria a Perugia nel 1976, cosa l'ha spinta verso questa specializzazione?
Vengo da una famiglia di farmacisti per cui ho sempre avuto la percezione che ci fosse l'idea che prima o poi qualcuno dovesse fare medicina. Poi quando mi sono trovato a farla mi sono reso conto che della medicina che taglia le pance e ascolta i polmoni francamente non mi interessava nulla. La psichiatria era la disciplina meno medica e dopo 46 anni continuo a essere profondamente contento di averla scelta.
Come definirebbe la malattia mentale?
Penso che innanzitutto esista, intesa come profonda sofferenza che una persona vive nel momento in cui si crea una frattura tra quella persona e il mondo che la circonda. Quando ciò accade la persona entra in una dimensione di psicosi, di paura. 
E qual è il compito dello psichiatra?
Quello di trovare un percorso che pur in presenza della malattia permetta alla persona di fare una vita qualitativamente la più significativa possibile. Un concetto che oggi va sotto il nome di recovery, che non significa solo recupero ma tutto ciò che permette alla persona, con i farmaci che sono utili, con un'attenzione alla persona che è fondamentale, con un'attenzione sociale che è altrettanto importante, di vivere con dignità e qualità.
La guarigione non esiste?
Sì, l'Oms calcola che il 60% dei malati guarisce, il 30% non ne viene fuori ma attraverso la recovery ci sono percorsi straordinariamente efficaci.
Lei qui a Trento si è inventato percorsi a loro modo rivoluzionari coinvogendo nella cura dei malati gli stessi utenti e i loro familiari. Ci spiega quando e come è nata l'idea degli Ufe, gli Utenti e familiari esperti?
Sono entrato in questo servizio nel 1993 trovando una situazione non bella, con parenti imbestialiti perché pensavano di non essere oggetto di attenzione. Io venivo da Cles dove avevamo fatto cose molto innovative e carine. A Trento dopo il 2000 abbiamo iniziato a raccogliere risultati significativi, abbiamo imparato che tanto più coinvolgevamo gli utenti e i familiari nei percorsi di cura dando loro responsabilità tanto più le cose cambiavano in meglio. Siamo un caso più unico che raro di servizio che ha messo a lavorare all'interno gente che ha sperimentato la sofferenza, ha fatto un percorso di cura e che diventa operatore mettendo a disposizione la sua esperienza. Le assicuro che a volte i risultati sono miracolosi. Oggi abbiamo 40 Ufe impiegati in vari settori.
Un'idea che ha fatto scuola?
Un'idea che è nata dal basso, dalle esigenze espresse dai famigliari. Che ha ricevuto premi ed è studiata e ha incuriosito operatori e giornalisti di tutto il mondo. Le resistenze degli operatori specializzati, che non erano ansiosi di avere estranei in reparto, hanno un po' limitato la diffusione. Oggi comunque siamo diventati nel nostro mondo famosi, non siamo più fenomeni da baraccone come eravamo visti all'inizio.
Nel 2006 ha fatto parlare l'iniziativa di attraversare l'Atlantico su una barca a vela con un gruppo di pazienti. Come le è saltata in mente la storia della «Barca dei matti»?
Avevo conosciuto un personaggio che aveva la passione della barca e portava in Croazia alcuni ragazzi dell'Anffas con piccole crociere. In dieci minuti abbiamo deciso di organizzare una attraversata oceanica. È stata una cosa di grandissimo impatto mediatico e ha messo in crisi i pregiudizi nei confronti della malattia mentale.
Altra cosa innovativa è stata quella di mettere assieme in progetti di convivenza pazienti del centro di salute mentale e profughi rifugiati politici. Funziona?
Mettere assieme due sfighe per vedere qualcosa di positivo forse è stata una follia pura ma ha funzionato. I nostri "matti" avevano il desiderio di una vita un po' più autonoma e i profughi erano cittadini di serie Z. Oggi sono un centinaio di persone che hanno conquistato dignità e autonomia.
Ora lei andrà in pensione, ma tutte le idee innovative introdotte rimarranno patrimonio della psichiatria trentina?
È un sistema che ci è voluto vent'anni per costruirlo ma per come è organizzata la sanità in Italia se domani arriverà un primario convinto che il sistema migliore siano le pillole in un anno tutto potrebbe sparire.
Cosa farà dopo il 31 gennaio?
Una delle passioni della mia vita, a parte la famiglia, sono i viaggi che sicuramente non mi farò mancare. L'altra cosa che farò è rimanere legato a questo mondo andando in giro a fare formazione e a raccontare le mie esperienze con gli Ufe.

comments powered by Disqus