La laurea all'estero paga: su 3 solo uno torna

La laurea paga ma in certi casi solo all'estero. Tanto che, in un anno, su tre under-40 con titolo accademico andati via dall'Italia solo uno è tornato. Mentre il gap tra domanda e offerta resta marcato e lo stesso titolo di studio spesso non riesce a riflettere le competenze "reali". Nel 2016, infatti, circa 16 mila laureati italiani tra i 25 e i 39 anni hanno lasciato il Paese e solo poco più di 5 mila sono rientrati. Un fenomeno 'migratorio' alimentato soprattutto dai giovani del Sud, fotografato dall'ultimo rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes 2017) dell'Istat. Insomma, "la capacità dell'Italia di favorire prospettive di occupazione altamente qualificata per i laureati italiani continua a mostrare segnali decisamente negativi", sottolinea l'indagine. Parallelamente l'Ocse punta i riflettori sugli squilibri nel mercato del lavoro in Italia: qui "i titoli di studio e le qualifiche danno un'indicazione molto debole delle reali competenze e abilità degli studenti e dei lavoratori che li possiedono", afferma l'organizzazione in un rapporto sulle "giuste competenze". E questo rende il processo di selezione e assunzione, da parte delle imprese, "particolarmente difficile", specie nei casi di giovani laureati e con poca esperienza.

Le recenti riforme del sistema formativo con la 'Buona scuola', del mercato del lavoro con il 'Jobs act' e della politica industriale con 'Industria 4.0', sottolinea ancora l'Ocse, vanno nella giusta direzione e possono dare una spinta per colmare il gap, ma la sfida è ancora aperta. Resta la necessità di "rafforzare il dialogo fra il mondo della scuola, gli studenti e le imprese affinché si riduca il divario fra le competenze sviluppate dagli studenti e lavoratori italiani e quelle richieste dalle imprese". Così come bisogna rafforzare la formazione tecnica e professionale, anche in modo da ridurre "la dicotomia" con i licei. L'evidenza mostra che i laureati 'specializzati' transitano "più rapidamente verso lavori di alta qualità e ben retribuiti". Gli altri, afferma sempre l'Ocse, restano "intrappolato in un mercato del lavoro che li colloca in posti di scarsa qualità". I numeri dicono, infatti, che il 35% circa dei lavoratori italiani è impiegato in posti che non sono collegati alla propria formazione e il 21% in posti per i quali è sovra-qualificato. Questa situazione è associata ad una perdita media salariale del 17% circa rispetto a coloro che si specializzano in un'area con chiare opportunità occupazionali.

Insomma, allineare le competenze con le esigenze del mercato del lavoro "è un obiettivo fondamentale per aumentare la produttività e il benessere di tutti gli italiani", suggerisce l'Organizzazione parigina. L'Italia deve peraltro fare i conti anche con un aumento delle diseguaglianze ed una maggiore ricaduta sui più piccoli piuttosto che sugli anziani: nel 2016, dice l'Istat, l'incidenza della povertà assoluta, "più che raddoppiata durante la crisi, si è mantenuta su valori elevati (7,9%) ed è ulteriormente aumentata tra i minori (12,5%, corrispondente a 1 milione 292 mila, viene ricordato) mentre gli anziani si confermano il gruppo meno fragile (3,8%)"

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