Il raid di Bruno «Gatto Randagio» nel cuore dell'Asia Centrale

di Franco Gottardi

Nel festival di emozioni che un motociclista amante dell’avventura raccoglie per strada durante un viaggio di diciottomilacinquecento chilometri ce ne sono un paio che Bruno Cappelletti si porterà per sempre nel cuore. Una è il sentimento di profonda gratitudine e di amore meccanico per la sua Transalp d’epoca che anche questa volta, nonostante più di vent’anni e di 230mila chilometri di onorato servizio, non lo ha tradito nemmeno nelle situazioni più difficili; l’altra è l’incontro con il popolo dei Qashqai e in particolare con quella famiglia che ha accolto lui e il suo compagno di viaggio nella loro umile dimora con incredibile generosità.

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Gatto Randagio, al secolo Cappelletti Bruno, trentino neo pensionato residente a Vezzano, ha coronato con successo il suo sogno. Voleva arrivare in moto sull’Altopiano del Pamir e lo ha fatto, facendosi conquistare da una realtà che ha superato le aspettative. «È uno spettacolo unico - racconta - un’altopiano con il suo corollario di cime innevate dove gli scenari cambiano in continuazione e dove la notte, ad oltre quattromila metri di altitudine, la luna ti appare per quello che è veramente, una palla d’argento incredibilmente chiara e luminosa».

Il viaggio, una cavalcata di quaranta giorni assieme a Sandro Ghiottone, compagno di avventura conosciuto via internet prima della partenza, è andato via abbastanza liscio anche se non del tutto privo di sorprese. In Uzbekistan, ad esempio, non è stato facile rifornirsi di benzina perché lì i veicoli vanno quasi tutti a gas e la super bisogna cercarsela al mercato nero. Il Turkmenistan non lo hanno proprio visto: frontiera chiusa agli stranieri, pare per non esporre a sguardi indiscreti le manovre militari attorno a una grande base russa. In compenso la deviazione in Azerbaigian ha riservato la bella sorpresa di una città moderna e bellissima come Baku e l’affascinante traversata del Mar Caspio a bordo di un barcone per raggiungere il Kazakistan.

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«Ma sono variazioni di percorso che rendono più interessante e vera l’avventura» commenta Cappelletti. Perché a dirla tutta ormai le strade che dall’Europa portano alle pendici dell’Himalaya sono trafficate da turisti di tutti i tipi; si incontrano coppie di anziani tedeschi in Mercedes o giovani ciclisti con tanta voglia e tempo libero per macinare chilometri.
Ma il bello, al di là dei paesaggi, è l’incontro con le genti che vivono lungo la rotta orientale. Gatto Randagio è rimasto colpito soprattutto dagli iraniani: «È un popolo espansivo ed accogliente. Quando siamo passati noi c’era la campagna elettorale e si vedeva nei comportamenti della gente la voglia di cambiamento che c’è. Nei paesi arrivavamo ed avevamo sempre nuguli di persone attorno. E poi ci sono posti bellissimi, come Persepoli che avrebbe meritato più tempo. Il mio compagno di viaggio aveva degli impegni con gli sponsor e voleva rispettare una precisa tabella di marcia altrimenti, fosse stato per me, l’avrei presa con più calma perché quello che amo di più è proprio il contatto con culture e persone così diverse da noi europei». E qui il pensiero vola ai Qashqai, che hanno dato il nome a un fortunato modello di macchina della Nissan ma sono una meno famosa etnia di pastori nomadi insediatisi ai piedi dell’altopiano del Pamir.

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I due motociclisti trentini li hanno conosciuti in circostanze difficili. «C’era stato un violento temporale e eravamo in difficoltà, costretti a superare dei guadi su una strada sterrata di montagna, infangati e affamati. A un certo punto, dopo una deviazione a causa di un ponte crollato, un bambino ci ha avvicinati chiedendoci se avevamo sete o fame. Abbiamo risposto di sì, eravamo veramente allo stremo, e ci ha portato nella sua casa». Lì i due stranieri sono stati accolti come principi.

«Era una famiglia di dieci persone - racconta Cappelletti - con i genitori, cinque figli maschi e tre ragazze che vivevano in una casetta di malta e paglia. Ci hanno fatto mettere le moto sotto un capanno, ci hanno lavato gli stivali, ci hanno dato da mangiare e poi hanno insistito perché dormissimo nel loro letto matrimoniale, in una stanza dove giravano dei galletti ruspanti. Avevano poco o niente e ci hanno dato tutto. Commoventi».

Ma storie, luoghi e incontri da raccontare ce ne sarebbero tanti altri. Le notti passate sotto tettoie di zinco nella steppa, l’albergo in Kirghizistan gestito da un bambino di 12 anni, la moschea sciita di Qom chiusa alle visite nel giorno delle elezioni, le ore di attesa alla frontiera tra Russia e Ucraina. Tutte cose che Bruno Gatto Randagio si porterà nel libro dei ricordi. Un volume pronto per essere arricchito di un nuovo capitolo. Forse in America Latina.

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