Alzheimer, se il museo diventa una terapia

Un museo che diventa terapia. Ecco l’idea che sta alla base del progetto «T-Essere Memoria», un percorso sperimentale con un gruppo di malati di Alzheimer

Un museo che diventa terapia. Ecco l’idea che sta alla base del progetto «T-Essere Memoria», un percorso sperimentale con un gruppo di malati di Alzheimer ospiti dell’APSP «M. Grazioli» di Povo, proposto dai Servizi Educativi dell’Ufficio beni archeologici e un primo bilancio del quale è stato presentato proprio a Povo.

L’idea nasce dal desiderio di aprire le porte del museo, nel caso particolare del Museo delle Palafitte di Fiavé, ad un pubblico che difficilmente in questa fase della vita viene accompagnato in museo o partecipa a laboratori archeologici.

Il progetto è stato strutturato in diversi momenti:

  • una progettazione condivisa da parte di Luisa Moser (responsabile dei Servizi Educativi dell’Ufficio beni archeologici) e di Roberto Maestri, Alberta Faes e Emanuela Trentini (animatori, fisioterapista e educatori della APSP di Povo);
  • 6 interventi dell’educatore museale presso la sede della APSP M. Grazioli di Povo;
  • un’uscita presso il Museo delle palafitte di Fiavé.


Hanno partecipato al progetto 12 pazienti residenti presso l’APSP, di cui 7 provenienti dal Nucelo Alzheimer il Girasole e 5 da altri reparti della struttura.

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Dopo un primo incontro, finalizzato alla conoscenza reciproca, momento indispensabile per prendere confidenza ed instaurare un rapporto di fiducia sia con l’educatore che con le altre persone partecipanti al progetto, sono state progettate per gli incontri successivi diverse attività, cercando di variare le proposte per tenere sempre alta l’attenzione e la partecipazione.

Partendo da copie di reperti appositamente selezionati, si è dato ampio spazio all’osservazione, alla manipolazione e alla discussione, in modo da mettere in atto la stimolazione cognitiva e la valorizzazione delle abilità residue.

Ognuno ha potuto toccare, osservare, riconoscere alcuni oggetti, fare supposizioni, cercare di portare a galla ricordi o antichi gesti. «Oggetti ricchi di storia e anche di ricordi», come ha spesso evocato Saveria, toccando una tazza di ceramica o la copia di un’ ascia in bronzo. Reperti molto semplici, essenziali ma ricchi di significato che hanno stimolato la memoria dei partecipanti.

Attraverso la stimolazione e l’interazione diretta con i reperti, si è cercato di sollecitare lo scambio di idee, di far scaturire ricordi ed esperienze personali e di mettere in relazione il proprio vissuto con i materiali e gli oggetti archeologici presi in esame.

I laboratori di tessitura, lavorazione dell’argilla e preparazione del burro, sono stati momenti molto importanti: tutte le pazienti hanno partecipato volentieri (aspetto non scontato per chi soffre di Alzheimer), si sono messe in gioco, hanno saputo riprodurre, con estrema facilità e grande attenzione antichi gesti, dimostrando come alcune abilità, quali il «saper fare» e la manualità, permangano nonostante la malattia, se adeguatamente stimolati.

I laboratori pratici sono risultati esperienze stimolanti, emotivamente coinvolgenti e piacevoli, che hanno permesso alle pazienti di accedere a personali memorie e saperi, di potersi mettere in gioco, sperimentare le proprie abilità e anche aumentare la propria autostima.

Si è constato che le attività proposte hanno suscitato grande interesse (soprattutto la preparazione del burro e la tessitura), migliorato l’attenzione e la concentrazione, facilitato la socializzazione e favorito l’interazione fisica e la partecipazione. «È stato bello stare insieme», ha detto Rita.

Momenti dedicati a laboratori pratici e alla creatività, la visita al museo, possono influenzare positivamente la qualità della vita di un paziente affetto da Alzheimer. Attraverso gesti ancestrali, come quello del tessere o del preparare il cibo, l’ammalato ha potuto riconoscere attività svolte in passato (Sofia racconta che «è un lavoro che ho già fatto e me lo ricordo, per questo mi è piaciuto»), ripercorrere sentieri antichi e in parte noti, mettere in atto pensieri e riflessioni (Elsa dice «Mi è piaciuto perché aiuta la testa») e aumentare la propria autostima (Maria Pia ha aggiunto «Non pensavo di essere all’altezza»).

Il museo, se reso fruibile e «partecipativo», può avere dunque un ruolo sociale e può aiutare nel decorso della malattia a migliorare la qualità di vita per i pazienti ma anche per chi si occupa di loro, i care givers, i quali si trovano a condividere questo devastante patologia.

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