Elio Orlandi, il richiamo dei sogni arriva dalla Patagonia

I sogni li ha realizzati (anche) sulle muraglie di granito del Fitz Roy e del Cerro Torre, nei ripari scavati nelle nevi del Paine o nel silenzio del K7, in Pakistan. Ma con Elio Orlandi - alpinista di classe superiore che non ha bisogno di grandi presentazioni - non parliamo di vie, gradi, difficoltà o dislivelli. Discorriamo invece di emozioni, di esperienze inseguite e vissute agli antipodi del pianeta, di quel«Richiamo dei sogni» che è il titolo del suo bel libro, diverso, sulla montagna vissuta «in punta di piedi».

Perché, Orlandi, «Il Richiamo dei sogni»?
«Se hai la passione per la montagna, di cui l’alpinismo è solo una parte, la sviluppi meglio se hai una base, una cultura della montagna e dei luoghi. Io mi porto dentro i segni della mia infanzia fatta di fatiche, privazioni e dignitosa sobrietà, poi ho avuto la fortuna di conoscere persone, di sviluppare una certa curiosità e di soddisfarla praticando il mio alpinismo e facendo esperienze. Anche ora nella vita, nonostante tutte queste esperienze, sento sempre questo richiamo, che è importante per realizzare le tue emozioni. È importante che queste si ripetano nella vita, che è fatta anche di passioni, che si riesca a realizzare qualche sogno e che si continui a pensare e a fantasticare».

E di sogni ne ha realizzati parecchi...
«Noi siamo anche le emozioni che viviamo. La mia esperienza mi ha portato a realizzarne parecchi se parliamo di alpinismo, ma se devo fare un bilancio il peso maggiore è di quelli non realizzati. Per me è importante fare un’esperienza di vita costruttiva, un equilibrio fra il realizzato e il non realizzato.
Anche da esperienze che non sono andate per il verso giusto puoi portarti a casa qualcosa di utile e importante. Rapporti umani e conoscenze nuove sono i veri valori della vita».

E quanto di tutto ciò si realizza in montagna?

«Sono nato in montagna e quindi da subito ho imparato a vivere della montagna. Anche nel campo professionale il mio lavoro di tutti i giorni si svolge sulla roccia e fra le montagne. Nel mio alpinismo la scelta iniziale è stata di vivere le passioni con il frutto del mio lavoro. Credo che tutto ciò porti maggiori soddisfazioni e ha più valore perché sei libero di decidere e non condizionato da niente e da nessuno».

E la Patagonia, che ha frequentato e frequenta, l’ha arricchita?
«È cambiata moltissimo dal punto di vista ambientale, alpinistico. Una volta era più avventurosa, una cosa che ti conquistavi giorno dopo giorno. Anche oggi comunque può darti la possibilità di vivere la propria passione scegliendo la libertà di decidere come farlo . Rispettando le ?leggi ambientali? ti dà la possibilità di trasformare i sogni in realtà in ambienti severi dove tante volte la bellezza è confusa con questa severità. Ho fatto esperienze da solo, ma anche con compagni stupendi: lì vado per vivere dei valori umani, delle esperienze molto importanti con compagni di cordata».

Che tipo di alpinismo è?
«Forse un po’ controcorrente di questi tempi. La mia visione è ancora romantica forse, come scelta in cima al Cerro Torre e al Fitz Roy o in giro per la Patagonia ho sempre preferito portare degli amici, non dei clienti. Persone anche di El Chalten (il villaggio patagonico alla base delle montagne, ndr), nel vero valore dell’amicizia».

Ci sono letture e autori che hanno fatto presa su di lei, che l’hanno influenzata?
«L’autore che mi ha forse ispirato di più è stato Bruce Chatwin, uno scrittore che ti fa viaggiare. Lo leggevo anche nelle trasferte sui pulmini. Una ricerca interiore che mi ha arricchito molto dopo le prime esperienze con i libri di alpinismo sulla Patagonia, le condizioni ambientali, le solitudini desolate, il mito dei forti venti. Anche Reinhard Karl mi ha toccato molto: realizzando cose che ha descritto, il ritrovarmi poi a riviverle, sono state sensazioni profonde. Negli anni Ottanta la metà dei viaggi era dedicata alla montagna e l’altra metà a girare nel continente per il mio arricchimento personale. Erano viaggi a due o con tre, quattro amici: per metà sulle pareti e per metà conoscendo altre culture. Capire meglio gli altri aiuta a capire meglio se stessi e rispettare l’uomo».

Perché la Patagonia è così ammaliante?
«Anzitutto per i grandi spazi, poi per i cambiamenti quasi improvvisi: gli estremi della natura, le diversità, i contrasti. Ti trovi ad assistere a scenari naturali diversi, se poi ti spingi in posti isolati e solitari la vivi quasi come una volta, ed egoisticamente speri che non ti raggiunga nessuno. È ancora possibile farlo adattandoti a camminare molto e a vivere ?dentro la montagna?».

Ci racconta l’isolamento?

«Nel 2013 volevamo sperimentare il vero isolamento e siamo andati al Monte Sarmiento con una barca di pescatori attraverso lo Stretto di Magellano, noto per i naufragi. In piena tempesta è stata un’avventura provante. Dopo 25 giorni sono venuti a riprenderci. Lì vivi veramente un’avventura primordiale respirando le sensazioni degli antichi Indios che raggiungevano queste isole sperdute con le canoe: c’è una lunga spiaggia sull’oceano dove si riversano le lingue dei ghiacciai e dove si fa il campo base, poi un cordone di foresta pluviale fittissima che devi tagliare per arrivare ai primi nevai. A 300 metri inizia la neve, a 600 i ghiacciai. Abbiamo vissuto questa avventura con grande partecipazione e inventiva, voglia di scoprire, nell’isolamento più completo. Abbiamo tentato varie volte di “bucare” lo strato di nebbia per vedere cosa c’era al di sopra di noi, ma non è stato possibile. Però abbiamo vissuto forse la più grande avventura della nostra vita in piena armonia tra di noi. Quando abbiamo dovuto partire eravamo emozionati e con un groppo in gola. Con gli amici, compagni di cordata stupendi, si continua a cercare di vivere nuove avventure fra amici vicini e lontani. Una bella cerchia di persone con le quali ho vissuto queste emozioni e delle quali resta un segno indelebile nella mia vita».

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